di Francesca Ielpo
«Temo che i nostri imprenditori, i nuovi ricchi, ignoranti come sono, appena si accorgeranno di questa “moda” diffusa presso gli occidentali, cercheranno di imitarli (come al solito) aprendo uno dopo l’altro musei d’arte moderna con ristorante annesso. Noi come popolo, non abbiamo né gusto né talento per le arti visive. Nei suoi musei il popolo turco, invece, deve poter riconoscere le proprie abitudini, la propria cultura ‒ non osservare una brutta copia dei dipinti occidentali. Le nostre collezioni devono esporre la vita vera, la vita così com’è nel nostro paese, non assecondare le velleità occidentalizzanti della nostra classe dirigente. La mia è la nostra vita, signor Orhan: mia e di Füsun. È tutto ciò che abbiamo vissuto, e tutto corrisponde a verità».
Kemal, il protagonista del libro da cui riprendo la citazione, sottolinea allo scrittore, Orhan Pamuk, il perché decide di esprimersi attraverso un museo, un museo che con uno dei più rappresentativi scrittori dello scenario letterario contemporaneo turco, diventa, non solo museo ma anche romanzo: Il museo dell’innocenza (Masumyet müzesi, traduzione italiana di Barbara La Rosa Salim, pubblicato in Italia da Einaudi nel 2009, un anno dopo la sua uscita in Turchia). Le sue pagine sono testimonianza di un periodo che oscilla dagli anni Settanta a quelli Ottanta. Anni, questi, in cui, appesantiti da regole sociali stantie e oppressive, le classi sociali più abbienti si avvicinano all’Europa e ne adottano, seppur a fatica, usi e costumi. Le mode e i divertimenti acquistano valore aggiunto se vi si associa la parola libertà. Così è per la verginità: Kemal e la sua fidanzata Sibel sono una coppia turca emancipata, dove il sesso si vive adagio, con frivolezza, abitudine e un pizzico di amore. Kemal è un giovane imprenditore, appartenente ad una delle famiglie più in vista della Istanbul bene; Sibel ha un’estrazione sociale molto simile e una formazione accademica alla Sorbonne di Parigi.
Ma lui, da quando rincontra la lontana, più umile e giovane parente Füsun, rade al suolo la sua quotidianità, dandole significato solo alla sua vista. L’uomo, dal finale già deciso con Sibel, una ragazza davvero meravigliosa a detta degli altri, manda in frantumi i fragili programmi da borghese-bohémien della nuova Istanbul.
Füsun e Kemal si incontrano di nascosto in un vecchio appartamento ma poi il destino gli si rivolta contro: Füsun, che con Kemal perde la sua verginità, dopo la festa di fidanzamento del suo uomo, si sposa, per recuperare onore e dignità. Kemal, che dopo poco lascia Sibel, pur di non perdere la sua donna, per ben nove anni diventa l’ospite abituale dei Keskin, i genitori di Sibel, che vivono con lei, nel quartiere di Beyoğlu, in via Çukurcuma. Tutti sono a conoscenza della stremata ossessione di Kemal per la ragazza ma tutti, a cena, intorno a quel tavolo, chiudono un occhio: Kemal è il produttore del nuovo film del marito di Füsun, che nel frattempo e in compenso vorrebbe tanto diventare un’attrice.
Affari, cinema, relazioni sociali e… oggetti. Nell’appartamento dei primi incontri, in casa Keskin, l’innamorato prende, ruba, conserva gli oggetti che appartengono o ricordano la sua amata. Essi hanno una forza evocativa, poetica, tragica: è amore triste, è nostalgia, è saudade, è spleen, è hüzün. È ciò che la musica turca più datata esprime, con le note allungate e lente, è ciò che il popolo turco comunica con l’anima.
Quando nella realtà incombe la mancanza di presenze fisiche, ci si aggrappa a visioni e ricordi che si concretizzano con pettini, mozziconi di sigaretta, profumi, cartoline delle strade attraversate insieme, abiti, scarpe, mobili.
Kemal finisce per essere un collezionista timido e orgoglioso e testimonia quegli anni nell’omonimo Museo dell’Innocenza, la cui sede corrisponde oggi a quella stessa casa a Beyoğlu, in via Çukurcuma, dove posiziona in modo logico e ragionato ciò che ha raccolto in quegli anni e che continua a collezionare, per meglio definire sostanza e contesto, spazio e tempo, in relazione a Füsun e al suo amore per lei. Il Masumyet müzesi è meta di turisti e lettori appassionati (si dia un’occhiata al sito ufficiale del museo: http://en.masumiyetmuzesi.org). Lì si osservano con occhi veri la passione di Kemal, i sogni di Füsun, che di questi vittima ne è rimasta. Colpa dell’innocenza? Colpa di una città che tanto prende, tanto dà, tanto ferisce, intrappolata com’è in passioni, gelosie, libertà strozzate? Colpa di ipocrisie, illusioni e sogni esotici?
Kemal, il personaggio di Pamuk, si affida nel romanzo allo stesso scrittore, ed è qui che la parola passa all’autore che spiega la volontà di Kemal di dar vita al museo e al libro che lo racconti al meglio e in prima persona, e anticipi la visita al museo.
Il premio Nobel Pamuk, non ha creato un romanzo, ha un creato un progetto “para-esistenziale”, in cui tutti possano trovarci i propri significati e ricordi: questa è la magia.
Pochi sono i romanzi complessi come Il Museo dell’Innocenza: una biografia, un diario, un amore ossessionato che sfocia in un’analisi a tratti socio-politica, a tratti socio-umanistica.
Orhan Pamuk è anche uno scrittore consapevole e mai dimentica, per bocca di Kemal, di fare riferimenti politici, e racconta il colpo di stato del 1971: il cui coprifuoco è intrinseco alla possibilità di vedere la sua amata. I lettori, probabilmente, saranno invece catapultati negli avvenimenti relativi al colpo di stato avvenuto recentemente: inevitabile è il pensiero insistentemente rivolto agli uomini e alle donne, che lì, per quelle stesse vie di cui si narra lo spirito, collezionandone gli elementi minimi, costruiscono un futuro fragile, amano, sognano, come chi circola nel libro. Anche i cittadini di oggi meriterebbero un museo; per ricordarsi della parola orgoglio nella sua accezione propositiva, per non farli cadere, per non fargli sbagliare, in quelle piazze affollate.