di Giulia Valente
All’interno del primo libro delle Storie erodotee troviamo, annessa alla digressione novellistica su Creso e Solone, la storia di Cleobi e Bitone. Questi ultimi sono un esempio per Erodoto della vera felicità, da lui definita ὄλβος e contrapposta alla buona sorte (εὐτυχίη), che è effimera e momentanea. Solone, personaggio erodoteo, rispondendo alla domanda del ricco re lidio Creso, presso cui è ospitato, su chi sia stato l’uomo più felice, narra la storia di due giovani fratelli di Argo, Cleobi e Bitone, e li proclama ὄλβιοι: non perché «godevano di sufficienti mezzi di vivere e, in più, di una vigoria fisica a tutta prova» (Erodoto, Storie I 31)[1], ma per la felicità acquisita in punto di morte. Infatti, secondo il pensiero dello storico ionico di cui si fa portavoce il suo personaggio, la fortuna terrena può essere rovesciata dalla divinità invidiosa (φθονερόν), mentre solo alla fine della vita si può dimostrare di aver goduto di una felicità costante e duratura.
Il concetto di ὄλβος trova la sua massima espressione nell’esempio dei due giovani argivi quando, dovendo la loro madre raggiungere su un carro il tempio di Era in occasione della celebrazione che la loro città tributava a tale dea, Cleobi e Bitone si offrirono, in assenza di buoi, di trainare personalmente il carro e, dopo averlo trasportato per quarantacinque stadi, giunsero al santuario.
Qui vennero grandemente ammirati da tutta la folla per l’impresa compiuta; e la madre, per ricompensarli di tanta benevolenza, pregò la divinità affinché concedesse loro il meglio che un uomo potesse ricevere. In seguito a tale preghiera, i due giovani, che si erano addormentati nel santuario, morirono colti dal sonno.
Tale passo, secondo la critica, si rifà al celebre mito delle cinque età dell’uomo, che sembra attestato per la prima volta dal poeta epico Esiodo e che trova, com’è noto, un interessante parallelo nell’episodio biblico della cacciata dall’Eden. Secondo una concezione del tempo come regresso e progressiva decadenza, il mito suddivide la storia in cinque periodi, dall’Età dell’Oro, beato e felice per gli uomini, all’età del Ferro, dove essi conducono un’esistenza di fatiche e dolori; i periodi intermedi sono l’Età dell’Argento, l’Età del Bronzo e l’Età degli Eroi.
Ora, nella primitiva età dell’oro gli uomini morivano come «presi dal sonno» (Esiodo, Opere e giorni 116)[2] e «come dèi vivevano, il cuore ignaro del dolore, del tutto al riparo dalla fatica e dal pianto, né li inseguiva vecchiaia misera» (Opere e giorni 112-114)[3], proprio come Cleobi e Bitone, morti in giovane età, non conobbero né vecchiaia né dolore.
La felicità erodotea intesa come ὄλβος e qui rappresentata, sembrerebbe, quindi, rifarsi a quella visione utopistica e idealizzata che Esiodo ci propone descrivendo la prima stirpe della progenie degli uomini.
L’idea di un primitivo mondo felice ove tutti gli uomini fossero φίλοι μακάρεσσι θεοῖσιν («cari agli dèi beati»: Opere e giorni 120), sembra rispecchiarsi in Erodoto in singole personalità, le quali, vivendo secondo equilibrio, riescono a ricevere la grazia divina di un eterno sonno felice. Nel particolare, la vicenda di Cleobi e Bitone si propone come manifesto di una concezione dell’uomo basata sul pessimismo, è la rappresentazione di quanto la fortuna umana sia labile: l’uomo non è fautore del proprio destino, improvvisamente τὸ θεῖον potrebbe rovesciare la sua fortuna; è dunque forse meglio morire perché solo così si è immuni dal dolore e solo in assenza di dolore – formula espressa anche da Esiodo (Opere e giorni 112) – si può vivere felici.
[1] Tούτοισι ἐοῦσι γένος Ἀργείοισι βίος τε ἀρκέων ὑπῆν, καὶ πρὸς τούτῳ ῥώμη σώματος τοιήδε. Le traduzioni accolte nel testo sono di Silvia Romani, in Esiodo, Le Opere e i giorni. Lo scudo di Eracle, a cura di Silvia Romani. Introduzione di Giulio Guidorizzi, Oscar Mondadori, Milano 1997.
[2] Θνῇσκον δ᾽ ὥσθ᾽ ὕπνῳ δεδμημένοι.
[3] Ὥστε θεοὶ δ᾽ ἔζωον ἀκηδέα θυμὸν ἔχοντες νόσφιν ἄτερ τε πόνων καὶ ὀιζύος: οὐδέ τι δειλὸν γῆρας ἐπῆν.