di Annalisa Vecchio
Il flop dei film italiani a Cannes? Non ha importanza, si sa come funzionano i festival; ci penserà il mercato e il pubblico a risarcirli. Magari vinceranno un Oscar, come è successo a Sorrentino due anni fa. Cambia il soggetto ma ad ogni delusione queste parole – magari non proprio queste – si ripetono come un mantra. Non è che suonino false ma, diciamo la verità, mai come quest’anno lo stupore è grande, e anche la delusione. Poi è vero, ricordiamo che i film italiani sono stati acclamati dal meglio della critica internazionale, dal Guardian a Variety, e comprati ovunque. La delusione è compensata dal fatto che sono stati realizzati, e che sono bellissimi. Si è scritto molto su Youth, Mia madre e Il racconto dei racconti, che forse c’è ben poco da aggiungere. La sorpresa, soprattutto per i quarantenni Sorrentino e Garrone, è che non ripetono quel “verso solo” che Moravia attribuiva ad un certo cinema per legittimare la ripetizione, di film in film, a volte noiosa, degli stessi schemi di racconto nei cosiddetti “film d’autore”. C’è invece una diversa continuità nella palese diversità dei nostri autori, ossia il desiderio di raccontare – con microespressioni e con la sontuosità di spettacolari paesaggi, umani e naturali – la bellezza a tinte forti, anche se al centro del racconto c’è il tentativo umano del pudore di esprimerli. Questo è palese soprattutto in Youth, dove la gioventù, più che anagrafica, sta nel coraggio di vivere le emozioni. È forse più convenzionale, ma sempre alla Moretti, l’elaborazione del dolore dell’attesa della perdita in Mia madre. È declinato nella maniera più coraggiosa nel film di Garrone, dove il pudore lascia il posto alle passioni più accese e spesso inenarrabili.
Il racconto dei racconti è tratto dall’ormai noto Il cunto de li cunti di Giambattista Basile , autore barocco. Testo decisamente ostico: si tratta di favole in napoletano antico, che provengono dalla cultura contadina precristiana e che si trasformano nella rappresentazione fedele ma antinaturalistica del mondo visionario e grottesco, delle inquietudini di un’epoca in profondo rivolgimento. Garrone però, si dimostra – per dirla con Pier Paolo Pasolini, che con Il Decamerone e I racconti di Canterbury fece un’operazione analoga – più moderno dei moderni. Sì, perché accetta la sfida di misurarsi con un genere, il fantasy, e rischia che gli venga affibbiata l’etichetta dispregiativa “all’italiana”, come fu per il western “spaghetti” e la commedia degli anni’60. Invece bastano i primi dieci minuti (un tempo si diceva la prima bobina) per capire che l’italiano ha forse visitato il genere, ma lo ha poi rivisitato, modellato e rimesso in forma per piegarlo al suo personale racconto. Non c’è da arricciare il naso a parlare di fantasy: da Il Signore degli anelli al televisivo Game of Thrones, il genere, forse eccessivamente spettacolare, forse troppo dipendente dagli effetti digitali da perdere di vista la metafora e il senso del racconto, ha mostrato una duttilità a piegarsi ad ogni esigenza narrativa. Certo, come ha spiegato per primo Francesco Durante sul Corriere del Mezzogiorno, qui siamo di fronte al barocco e non a una terra di mezzo. E sta tutto qui lo scarto con il fantasy. E Carmine Garrone, pur con racconti grotteschi e spesso raccapriccianti plasma il suo materiale rendendolo un piacere dello sguardo e senza tradire il testo letterario. Parliamo di sentimenti, anzi passioni forti, senza concessioni moralistiche. Riscrive l’originale e ne fa un prodotto di autentica arte cinematografica. Arte debitrice di Luchino Visconti e Michelangelo Antononi, strettamente contigua a quella che negli ultimi trent’anni è invece ancora alla ricerca di una sua definizione, e che, con Garrone e Sorrentino, sembra ritrovare una confortevole e modernissima spinta vitale.
Pare che lo stesso Garrone sia già al lavoro per una nuova serie televisiva tratta non dal film, ma ancora dal testo di Basile. Le altre storie, raccontate da vecchie megere, riguarderanno principesse risvegliate non da baci, ma da atti meno nobili e cenerentole che uccidono le matrigne. Chissà se si riuscirà ad evitare gli “effettoni digitali”, già usati nel film, a favore della grande maestria degli artigiani del cinema.
_______
Il film di Garrone è tratto da La pulce, la cerva e la vecchia scorticata di Giambattista Basile, pubblicato da Donzelli e nella versione di Bianca Lazzaro. Per un più approfondito studio, ci sono i testi sul Lo cunto de li cunti e tutta l’opera di Giambattista Basile pubblicati per le edizioni di G. Petrini. Ed anche:
Basile, Il Pentamerone, ossia la fiaba delle fiabe, introduzione di Benedetto Croce, prefazione di I. Calvino, Bari Laterza, 1974
G.B. Basile, Lo cunto de li cunti, testo della prima edizione del 1634-1636, traduzione a fronte, note, a cura di M.R., Milano, Garzanti, 1985,
Giambattista Basile, Il racconto dei racconti, ovvero il trattenimento dei piccoli, traduzione a cura di Ruggero Guarini, Biblioteca Adelphi, 1994, 2a ediz.