di Luca Onesti
Una celebre fotografia in bianco e nero del fotogiornalista portoghese Alfredo Cunha mostra un mucchio disordinato di casse in legno, con il monumento di Belém dedicato alle scoperte geografiche sullo sfondo. Le casse, alcune delle quali recano come solo indirizzo di destinazione la scritta “Lisbona”, sono i pochi averi che i coloni di quelle che erano le provincie ultramarine del Portogallo sono riusciti a salvare, e a inviare nella “metropoli”, una volta che il processo di decolonizzazione era arrivato, dopo 13 anni di guerra e all’indomani della Rivoluzione portoghese del ’74, al momento conclusivo.
Ha scritto il filosofo portoghese Eduardo Lourenço ne Il labirinto della saudade: «Siamo stati, siamo una piccola nazione che sin dall’ora della sua nascita si è rifiutata di esserlo, senza potersi convincere che si sarebbe trasformata in grande nazione. […] Anche nel momento solare della nostra affermazione storica questa grandezza era, concretamente, una finzione. Noi eravamo grandi, ma eravamo grandi lontano, fuori di noi, nell’Oriente dei sogni o in un Occidente ancora impensato».
Fu così che la nazione “una e indivisibile dal Minho a Timor” – il Minho è la regione più a Nord del Portogallo e Timor est, indipendente dal Portogallo nel 1975 ed invaso dall’Indonesia, ha poi raggiunto l’indipendenza da quest’ultima a seguito di un referendum, nel 1999 – si vedeva di nuovo confinata ad un esiguo rettangolo all’interno della penisola iberica. Dell’impero coloniale, i containes raffazzonati lasciati sulla banchina da dove 500 anni prima partivano le caravelle dei navigatori, erano tutto quello che rimaneva.
In questo momento della Storia portoghese si situa la storia raccontata nel libro di Dulce Maria Cardoso, O retorno, edito in Portogallo dalla casa editrice Tinta da China nel 2011, e pubblicato in italia da Voland nel 2013, con il titolo Il Ritorno, nella traduzione di Daniele Petruccioli.
Luanda, Angola, 1975. È domenica, il quindicenne Rui e la sua famiglia stanno pranzando. Tutto sembra normale ma ogni gesto, ogni oggetto, dalla tovaglia al dolce che stanno mangiando, al roseto in giardino che sua madre cura con affetto, assume una tonalità malinconica: la famiglia di Rui deve partire in fretta, intorno a loro si sentono spari, molti dei vicini sono già andati via. Dall’Angola, dal Mozambico e da quelle che erano considerate “province ultramarine” dell’Africa portoghese, è stato organizzato un ponte aereo che porterà, tra il 1974 e il 1975, 800mila persone – i “retornados”, i ritornati, come scriveranno i giornali – dall’Africa al Portogallo (ma diversi voli furono organizzati anche verso il Sudafrica ad esempio, o il Brasile).
Gli eventi precipitano ulteriormente, il padre del ragazzo viene arrestato, bisogna andare all’aeroporto e aspettare il primo volo disponibile: la famiglia di Rui non riesce nemmeno a inviare via nave qualche cassa di legno. Pirata, la cagna, corre dietro alla macchina pensando che si sta ripetendo il consueto gioco delle gite domenicali, ma si stancherà di correre perché la macchina questa volta non si fermerà ad aspettarla. Tutto quello che rimane lì è perso per sempre.
I suoi genitori sono emigrati in Angola a fine anni ’50 da una regione povera del Portogallo, ma Rui nella “metropoli” non ci è mai stato, perciò una volta arrivato si sorprende di vederla, dai finestrini del taxi, sporca, intricata di viuzze piene di buche. Momentaneamente, Rui, sua madre e sua sorella, vengono alloggiati ad Estoril, una nota località di villeggiatura sulla costa non lontana da Lisbona, in un albergo a 5 stelle con vista sul mare. L’hotel, per loro come per altre famiglie di “retornados”, sarà il limbo da cui dovranno partire per provare a ricominciare da zero una nuova vita. È interessante che gran parte del romanzo – che d’altronde si ferma per alcune pagine anche sui momenti passati in aeroporto – prenda forma a partire da questo luogo di transizione. L’hotel è il vero e proprio fulcro del libro, eterotopia in senso foucaultiano ma anche, paradossalmente, luogo di formazione per l’adolescente Rui.
Dulce Maria Cardoso, l’autrice del libro, è lei stessa una “retornada”: nata nel 1964 nella regione di Trás os Montes, a sei mesi si è trasferita con la famiglia in Angola, per poi tornare in Portogallo dopo il 1975. L’esperienza di essere figlia di migranti e figlia di coloni, l’essere dunque sia dalla parte degli esclusi che da quella degli sfruttatori, si riflette nel romanzo, quasi per intero un monologo pronunciato in prima persona dal quindicenne Rui. Un monologo che, per l’uso della punteggiatura e per il suo strutturarsi, si presenta come un flusso di pensieri che vengono continuamente interrotti dal dubbio e dalla disillusione, quasi come se venissero contraddetti subito dopo essere stati formulati.
In un saggio molto interessante, la ricercatrice Ana Filipa Prata descrive più a fondo lo svolgersi di questo flusso di pensieri, la cui struttura è fortemente rivelatrice del tipo di operazione memorialistica e rammemorativa che l’autrice vuole proporre. Raccontando le sue giornate, la vita nell’hotel o nella scuola che prende a frequentare nella “metropoli”, ad ogni nome o riferimento Rui fa corrispondere, per associazione di idee, i momenti dispersi del passato di cui è stato testimone, le voci delle persone che gli sono intorno, sua sorella o sua madre, gli altri “retornados” che sono stati alloggiati nel suo stesso albergo, le voci ormai lontane del padre o dei vicini di casa o degli amici d’infanzia dell’Africa. Con un procedimento metonimico, ad ogni pensiero corrispondono echi, voci che irrompono continuamente e sono spesso portatrici di discorsi contraddittori. Al “là” immaginato e mitizzato della “metropoli” di quando Rui non la conosceva, si contrappone il “qua” di una realtà che ora appare come tutt’altra e persino la distinzione razzista tra “noi” e “loro”, tra i bianchi e i neri ora cambia di segno e di significato: per “quelli di qua”, in Portogallo, essere “retornado” vuol dire portarsi addosso uno stigma che significa povertà e arretratezza. È in questa dura realtà che avviene la formazione del ragazzo: alla consapevolezza che non c’è una sola versione della storia né una sola maniera di interpretarla fa da riflesso il fatto che il lavoro di ricostruzione della memoria e della propria identità si deve basare, in questo caso più che in altri, solo sui frammenti e sulle rovine.
Negli ultimi anni sono usciti in Portogallo diversi libri che raccontano le esperienze e i ricordi dei “retornados”; un vero e proprio filone letterario ha riempito le vetrine delle librerie portoghesi, anche se troppo spesso si è puntato sulla nostalgia di un’Africa mitizzata e su quello che è stato chiamato “marketing della saudade”. Allo stesso tempo però sono usciti libri di grande qualità e che sono di grande importanza nell’affrontare un nodo, quello della decolonizzazione, che rimane il fatto storico più importante e spesso rimosso del Portogallo di oggi.
Un grande scrittore come António Lobo Antunes, ad esempio si è confrontato con questo tema a più riprese, ma ora siamo di fronte ad una seconda generazione di scrittori che scrivono su quel periodo da una prospettiva diversa. Citiamo, anche se ce ne sono molti altri che lo meriterebbero, Cadernos de memórias coloniais di Isabela Figueredo e Os dias do fim di Ricardo de Saavendra. Si tratta ancora di racconti in prima persona, di narrativa testimoniale dunque, ma ora a raccontare sono i figli. La stessa Dulce Maria Cardoso ha sottolineato, in un’intervista al quotidiano Público, che, essendo all’epoca dei fatti molto piccola, è riuscita, a differenza di sua madre e sua sorella, “a congelare tutto”, a “memorizzare senza giudicare”.
La ricercatrice Isabel Ferreira Gould ha parlato a questo proposito di “narrativa di decantazione”, appunto perché siamo di fronte a “opere di figli che provano a rivedere le memorie loro e quelle delle proprie famiglie, stabilendo tensioni e conflitti all’interno della propria generazione e con la generazione dei loro progenitori”. In questo lavoro di decantazione e di filtraggio del passato, è insito anche un omaggio, in modo tale che si crea una tensione tra la dimensione critica e quella dell’elogio, della lode e del ricordo grato alla propria famiglia.
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Fonti consultate:
Kathleen Gomes, “Há retornados que acham que sou uma traidora”. https://www.publico.pt/culturaipsilon/noticia/dulce-1708071
Público del 17/09/2015
Raquel Ribeiro, “Os retornados estão a abrir o baú”. https://www.publico.pt/culturaipsilon/noticia/os-retornados-estao-a-abrir-o-bau-263209
Público del 12/08/2010
Ana Filipa Prata, “O cronótopo do hotel e a formação da memória em O retorno, de Dulce Maria Cardoso”, Navegações, Revista de Cultura e Literaturas de Língua Portuguesa. Pontifícia Universidade Católica do Rio Grande do Sul (PUCRS).
Isabel Ferreira Gould, “Decanting the Past: Africa, Colonialism, and the New Portuguese Novel.” Luso-Brazilian Review 45.1 (June 2008) (University of Wisconsin-Madison): 182-197.