di Francesca Ielpo
Io la Turchia non me la immaginavo. Un giorno e tanti giorni seguenti mi sono trovata in un grande pozzo nero colmo di lacrime. Vi ero caduta per via di una corona d’alloro a cui non ero pronta e per via di parole che segnavano la fine di un affetto grande. Allora, in un giorno di sole e di coraggio, mi butto in destinazioni nuove, per scoprirmi di nuovo e per lavorare. Solo allora, la Turchia della famosa Taksim (allora si parlava delle proteste, solo dopo c’è stata un’onda degenerativa di attentati terroristici e scontri etnici) prende forma e a febbraio di due anni fa atterravo a Istanbul e la mia valigia di ricordi passati cominciava a perdersi. Finalmente ritrovavo il calore freddo ma vitale degli sconosciuti e dei non luoghi. Nonostante questo ero confusa e triste, perché in attesa di un futuro che volevo si costruisse all’istante. Ma, ogni tanto, me ne scordavo del futuro, e per le vie della città magica mi perdevo e mi lasciavo affascinare da un mondo che solo a metà sapevo mi appartenesse. Eppure sentivo che mi stava portando lontano. Quanti profumi nuovi, inutili starli qui a elencare, la mia mente aveva imparato a riconoscere, senza più giudicare. Due mesi, questi, in cui stanca di categorizzare, imparavo ad adattarmi a ciò che prima mai avevo vissuto.
Ritorno in Italia e decido di insegnare italiano agli stranieri, studio ancora e riparto dopo sei mesi. A quel punto la Turchia me la immaginavo, ma non la città in cui avrei vissuto: una piccola città in cui tutte le ferite passate non guarite si erano riaperte. Non mi trovavo più per l’ennesima volta. Ragazzi e ragazze lontani da me, dai miei pensieri, dai miei discorsi, mi offrivano un’amorevole ospitalità ma sorrisi forzati e troppo curiosi. Tutto il surrealismo della prima esperienza a Istanbul era svanito. Realizzavo quello che vivevo e provavo rabbia, pietà e un distaccato rispetto per tutte quelle donne e per tutti quegli uomini (soprattutto donne) arresi a una vita di regole . E quanti incontri sbagliati, e quanta fiducia persa. Ma nel frattempo imparavo il mio mestiere e mi costruivo una corazza. In fondo, era odio misto a amore: sentimenti che ero solita condividere con gli amici fidati, quelli che avevo trovato come un tesoro e che incontravo ogni sera per bere di nascosto qualche birra sulle scale proprio di quell’edificio all’angolo, che la sera apparteneva solo ai gatti.
L’estate avanza e il presagio di quella prima Istanbul che mi avrebbe portata lontano per un po’ si avverava. Eccomi a Smirne, dove avevo imparato a riconoscere il colore del mare e a non soffrire più. Ciò che non andava era solo un granello di sabbia di fronte a tanta bellezza inimmaginabile. A Smirne mi aspettavano responsabilità, fatiche, un approccio finalmente vivo con la lingua, momenti da colmare in modo intelligente e sano, e poi le strade del centro, dove camminavo e sorridevo. A me tutto questo mare da guardare mi stava salvando mentre la Turchia peggiorava e i turchi erano persi tra conservatorismi e trasformismi. Mi dispiaceva aver trovato un granello di me mentre loro non sapevano più da che parte stare.
Bombe ad Ankara, Istanbul, Ankara, Istanbul, Bruxelles, e penso: “quando toccherà a me? Il mare è già esploso?” Non riesco più a guardarlo, nemmeno quando è così azzurro da fare esplodere i miei di occhi. E’ sempre grigio come quando prima pioveva e mi chiedevo, sonnecchiando appoggiata al finestrino dell’autobus che mi avrebbe portata a lavoro, dove fosse andato il mio sole quotidiano. Mi ero ritrovata,è vero, ma ora fiacca di pigrizia e di rassegnazione, tremo di fatalismo e non ho ragioni a rendermi forte.
Quando esploderà il mare? E’ già esploso?