Il reduce Pavese
14/07/2016 blog

di Amelia Ippolito

Un paese ci vuole, non fosse che

Per il gusto di andarsene via.

Un paese vuole dire non essere soli,

sapere che nella gente, nelle piante,

nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche

quando non ci sei resta ad aspettarti.

( La luna e i falò)

Cosa vuole o cosa può indicare la poetica di Cesare Pavese a una generazione virtuale, interculturale, astratta e disillusa come la generazione contemporanea?

Sono finiti gli anni del liceo, la decadenza e il fascino di certi miti che hanno usato la morte, il suicidio come protesta sociale o intima polemica intrisa di rancore e dell’inconscio, segreto amore di sé; tutto sembra così sfumare con gli ideali che ormai ci hanno deluso, annoiato.

Cosa resta di una poetica spesso scarna di illusioni, della cruda realtà di un uomo oppresso dal potere o solo dalle sue segrete intime pulsioni sotterrate nell’entroterra dell’anima?

Cosa resta del sottosuolo della sua memoria, che in vita era sempre pronta a ferirlo, a recriminare, a sfidarlo con le sue visioni morbose, i suoi ricordi assassini, le sue immagini dolenti quanto deliranti, improvvise, inaffondabili.

Cosa resta di Cesare Pavese? Resta solo Cesare Pavese. Resta cioè l’uomo. L’uomo Pavese.

La sua umanità ferita, dilaniata: resta l’uomo a sopravvivere al poeta, al suicida, al narratore.

Sì, al di là del bene e del male, parafrasando Nietzsche, resta l’uomo dei miti dell’infanzia nelle Langhe e della triste periferia torinese, il ragazzino dai calzoni corti che corre con lo sguardo nella nebbia delle sue colline, pronto a sognare una donna sverginata dal suo corpo di uomo stanco sebbene ancora fremente di vita da vivere e da godere.

Resta l’uomo, come a dire, resta la sua umanità, spesso rivestita dall’involucro incerto e acre del suo duro mestiere di vivere.

“L’uomo Pavese” è l’essenza di ogni sua poesia-racconto, di ogni sua lirica visione, ma è proprio quando un poeta lascia a noi in eredità l’uomo che è stato e comunica a noi la sua umanità più vera, che il poeta ha realizzato la sua poesia più bella, il suo racconto più originale.

Così, l’uomo Pavese, ci permette ancora oggi di attraversare i mari del sud senza aspirare a falsi orizzonti o a voler svelare, ad ogni costo, il mistero che ci avvolge.

E come il seme che se non muore non porta frutto, l’uomo Pavese si auto genera e si ricrea da ogni sua ferita, da ogni sua sconfitta, anche dalla sconfitta più grande, da quella che pone fine ad ogni altra successiva sconfitta: la morte.

L’uomo Pavese se muore dunque, è perché possa nascere il mito, il poeta, il narratore disincantato della luna e dei falò, dei racconti d’estate, delle donne sole e di quel “lavorare stanca” dalle antiche ascendenze dannunziane, con riferimenti a Gozzano e che affonda le radici nel suo amato poeta americano Walt Whitman.

Ma il vero uomo Pavese quando muore, ai suoi lettori più attenti lascia la sua intima umanità, la ferita che puoi leggere e stamparti sul cuore.

L’uomo Pavese, allora, ci lascia come una madre ferita dalla malattia terminale e che da un anonimo letto di un qualunque ospedale, ancora sussurra il tuo nome di figlio, ma tu sei impotente, eppure testimone fedele di un dolore che non scorderai mai.

L’uomo Pavese ci lascia orfani di parole e lascia a noi di sé la figura di reduce stanco che torna da una guerra ormai persa per sempre al proprio paese e la sua memoria ci solleva, ci rimargina, ci ristora.

Cesare Pavese ci ricorda che siamo solo uomini e mendicanti: uomini bisognosi di misericordia.

E quel reduce triste e quel paese falsamente allegro che ora ci appare, possono farci ricordare e immaginare, infine, un “paradiso laico” dove il reduce Pavese finalmente torna a casa e appare ai nostri occhi miscredenti con un sorriso disincantato, come quello di un vecchio che del mondo ormai ha visto e conosce tutto.

Così resta l’uomo Pavese dinanzi ad un pubblico di lettori affascinati: il solito reduce che, ora però, fa ritorno al silenzio eterno, dal momento che con la sua umanità ferita ha già raccontato tutto quanto era possibile raccontarci.

A mia madre morta il 3 Maggio 2016, perché continui a leggere ciò che scrivo e a credere in quello che sono.

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