di Consuelo Peruzzo
Ho conosciuto Rodrigo nel 2013, durante la presentazione del libro Eu sou favela (trad. italiana “Io sono Favela”), in una città a nord di Vicenza. A partire da quel momento ho iniziato a seguire le sue attività, il suo impegno sociale e le sue pubblicazioni. Rodrigo Ciríaco è un professore di storia, educatore e scrittore che risiede e svolge le sue attività nella periferia di San Paolo, Brasile. Lui stesso si identifica come scrittore marginale periferico e le sue opere (ha pubblicato tre libri, due di racconti ed uno di poesia), sono incentrate nel contesto periferico di San Paolo, dando voce ai residenti e ai bambini che frequentano la sua scuola. Il lavoro che svolge con i bambini e adolescenti della periferia, è volto a dare loro un’alternativa alla vita a cui sono condannati: coinvolgendoli in attività culturali ed educative, nella lettura e nella scrittura, cerca di sviluppare la loro creatività. L’intervista nasce per la forte ammirazione che nutro verso il suo lavoro e la sua lotta costante contro pregiudizi e disinteresse istituzionale. Rodrigo si trovava in Europa per partecipare al festival Primavera Literária Brasileira, organizzata dal professore José Leonardo Tonus, dell’Università Paris IV, in quattro stati europei: Francia, Belgio, Portogallo e Spagna. L’intervista si è svolta il giorno 31 marzo 2017 a Lisbona.
Consuelo: Cosa significa educazione nella periferia di San Paolo?
Rodrigo: Quando sono entrato all’università, già sapevo bene cosa volevo: essere professore. Molti entrano con l’idea di essere ricercatori soprattutto nella mia area, storia, perché a essere professore si guadagna poco e non si è riconosciuti. Cosa significa essere educatore nella periferia, mi sono risposto durante il mio percorso universitario. Nel 2005 ho lavorato come educatore sociale di strada presso l’ONG Fundação Travessia. Eravamo otto educatori provenienti da diverse aree di formazione, da un rapper a una psicologa, una teologa, uno storico… e lavoravamo nella regione centrale di San Paolo. Portavamo con noi un telo di plastica, lo stendevamo per terra, ci mettevamo sopra giocattoli, libri, peluche e questo era il nostro spazio pedagogico, era il nostro spazio di lavoro, la nostra classe, il nostro laboratorio. In Brasile c’è una visione molto sbagliata dei bambini perché si parla di crianças de rua (bambini di strada), ma in realtà si tratta di crianças na rua (bambini in strada) perché il 90-95% di questi bambini hanno una famiglia. Non necessariamente una famiglia tradizionale cristiana, papà e mamma, ma hanno o un papà, o una mamma, o un padrino, o uno zio, o una nonna.
Il nostro lavoro consisteva innanzitutto nell’avvicinarsi a questi bambini e adolescenti, stabilire una relazione pedagogica e di fiducia e a partire da questa relazione, scherzando e giocando riuscivamo, a poco a poco, a chiedere delle informazioni. Per esempio: «Allora amico, da dove vieni? Ah, conosco la tua zona, i tuoi vicini». Partendo da questo scambio naturale, giocando con loro, leggendo un libro, raccoglievamo informazioni e guadagnavamo fiducia per poi problematizzare la situazione di rischio e vulnerabilità a cui i bambini possono andare incontro vivendo per strada. A partire da questa problematizzazione riuscivamo a stabilire un contatto con la famiglia e facevamo da ponte per toglierli dalla strada e riportarli nelle loro famiglie. Questo è stato un lavoro che mi ha trasformato e formato, soprattutto nella visione di ciò che io avrei voluto fare nelle scuole: erano crianças na rua, ma da dove provenivano? Dalla periferia. E ho scoperto che l’ultimo filo, l’ultima cosa, a cui erano legati prima di rompere tutto e ritrovarsi per strada era la scuola. Questo lavoro che stavo svolgendo non mi avrebbe portato oltre perché il principale problema in quel contesto era la disuguaglianza sociale, l’ingiusta distribuzione di reddito che esiste in Brasile. Io volevo combattere questo problema e così ho pensato: dov’è il primo luogo di combattimento per me? Ci sono vari fronti di combattimento, ma in quel momento per me era la scuola: l’educazione come punto di trasformazione della società. Tutto ciò mi è stato molto chiaro un giorno in cui ho fatto visita ad una bambina, con la quale già lavoravamo con l’ONG. Viveva in una favela, in una baracca molto pulita, ben organizzata, ma di terra ed era uno spazio unico, senza divisioni, non c’era il bagno, ma solo una latrina. Io stesso mi sono detto che se avessi vissuto in quel luogo, sarei andato per strada perché questi bambini si trovano a vivere in posti orribili, prigionieri di quel sistema e devono portare soldi a casa per la famiglia e molte volte la famiglia non è un contesto sano in cui crescere, come nel caso di questa bambina, la quale era molestata sessualmente dal suo padrino. In casi come questo, la strada è la soluzione migliore.
Ti faccio un altro esempio di un bambino con il quale lavoravamo in questa ONG. Con lui avevamo instaurato una relazione molto divertente, di fiducia e avevamo insistito perché tornasse a casa. Un giorno mi ha guardato e mi ha detto: «Ok zio, tu vuoi che io torni a casa e io torno, ma tu mi dai una casa per la mia mamma? Perché io non voglio più vivere in quella casa dove vivo; è molto povera, molto piccola e viviamo in molti. Allora, se non mi dai una casa puoi dare una macchina da cucire alla mia mamma? Lei è una donna delle pulizie e sarta, ma non ce la fa più a fare le pulizie. Se le dai una macchina da cucire, io torno a casa subito». In quel momento, non avevo la possibilità di comprare una macchina da cucire per la sua mamma.
Dopo pochi mesi sono stato chiamato per insegnare in una scuola pubblica. Oltre alla mia formazione e oltre all’insegnamento, mi portavo appresso questa esperienza, quindi sono arrivato a scuola con una posizione molto combattiva. Vedevo quest’ambiente come un qualcosa che va oltre all’educazione e all’insegnamento perché rappresenta l’ultima speranza, l’ultima spiaggia prima di decidere di andare per strada. È il luogo dove io dovevo mantenerli ed educare nella periferia è un lavoro molto difficile. C’è una frase di Darcy Riberio[1] che mi piace molto: “La crisi dell’educazione in Brasile, non è una crisi ma un progetto”. Nessuno dice apertamente che è un progetto dell’élite per peggiorare la situazione del Brasile, ma ciò è molto chiaro nel discorso politico, nel disvio di soldi, nella corruzione, nella mancanza di un piano di carriera effettivo, nel salario basso. La formazione in Brasile ha come focus una formazione tecnica, mirata al lavoro, non si vogliono teste pensanti perché possono essere un problema. Il Brasile ha dei forti traumi interni che non sono mai stati discussi e l’élite economica non vuole discutergli né oggi né mai. Noi educatori, nonostante assumiamo un ruolo molto grande ed importante, siamo molto piccoli. Siamo molto arrabbiati e in rivolta anche se ciò conduce a due strade distinte: una positiva e l’altra negativa. Quella positiva è che possiamo tentare di cambiare le cose, mobilizzandoci, nonostante le condizioni e le discriminazioni; quella negativa è quando un professore “se ne fotte” di tutto, sta lì per guadagnare uno stipendio e diventa infelice, incomodato, ma accomodato e non fa nulla per cambiare, anzi guarda i ragazzi con disprezzo, in modo crudele. Quelli che “se ne fottono”, ti puntano il dito contro perché tu hai voglia di cambiare il sistema, hai la forza per lottare e quando vedono che nel tuo piccolo ci stai riuscendo, passano ad avere una certa ammirazione.
Consuelo: I bambini credono che l’educazione sia importante o sono divisi tra l’idea che è meglio andare per strada o è meglio andare a scuola?
Rodrigo: Per fortuna si pensa ancora che l’educazione è fondamentale. Se chiediamo ad una persona qualsiasi, dirà che l’educazione è fondamentale per la società e i giovani sono coscienti di ciò. Ma qual è il problema della scuola? È un deposito di persone. C’è una mia poesia che riassume un po’ quello che io vedo nella scuola: “Le scuole sono gabbie dove impariamo a essere obbedienti, metterci in fila e a tagliare le nostre ali”. Se prendi un bambino pieno di energia, un adolescente con la voglia di essere ribelle, un giovane con la voglia di scoprire, con gli ormoni in agitazione e si vuole educarlo, non può funzionare un’educazione basata sulla disciplina militare, dittatoriale, tutti seduti, tutti in fila, calmi con le bocche chiuse perché sono io che parlo. Il modo in cui si trasmette l’insegnamento è molto seccante, è questa cosa massacrante che non da spazio alla libertà, alla creatività. Non penso che a scuola tutto deve essere bello, magnifico e facile, ma non deve nemmeno essere totalmente l’opposto. L’educazione non è facile, ma abbiamo visto che questo sistema tradizionale non funziona eppure continua perché è più facile continuare così che stravolgere tutto. Il grande problema della scuola è la metodologia, la didattica, il modo come la conoscenza è insegnata, trasmessa agli alunni e Paulo Freire[2] mette in discussione ciò definendola “educação bancária” (educazione bancaria) e afferma che l’alunno non è un oggetto inerte, dove depositi in lui la tua conoscenza. Bisogna considerare l’alunno nel processo di conoscenza, bisogna osservarlo poiché è un soggetto. Tu professore, hai l’autorità della conoscenza, ma lui ha l’autorità della sua vita.
Consuelo: Anche i ragazzi neri sono integrati in questo sistema educativo periferico?
Rodrigo: Sì, sono integrati, ma il Brasile ha un problema di classi e di razza. Il fatto di essere nero, provoca nei bambini della scuola pubblica una bassa autostima e subentra il fattore del bullismo in cui la bambina nera passa ad essere chiamata macaco, dai capelli brutti, ecc. Molti miei alunni hanno smesso di venire a scuola perché non sopportano più i preconcetti, il razzismo.
Consuelo: Questi preconcetti e questo razzismo sorgono dai bambini o dai professori?
Rodrigo: Da entrambi. Dai bambini e dagli adolescenti meno perché in Brasile il razzismo è velato e principalmente nella periferia se chiami un nero macaco, sei morto, ma si usano altre parole come «tizio è isolato…». Anche tra professori è velato. Nel mio libro Te pego là fora (trad. italiana “Ti aspetto fuori”) c’è un racconto a tal proposito. Io chiamo sempre i miei alunni per nome; fin dal primo giorno di lezione, facevo l’appello chiamandogli per nome, per ricordarmi le loro facce e per stabilire una relazione tra soggetti. Non tutti i professori fanno questo. Per esempio succede che qualche collega mi dice: «Hai visto, quel bambino è terribile» «Quale bambino?» «Quello che siede là nell’angolo, quello mulatto» «Quale mulatto?» «Non so se è mulatto o è negro». E io ci rimango male perché non sanno nemmeno identificare il bambino, ma lo discriminano per il suo colore. Questi bambini devono affrontare la difficoltà di essere neri, almeno sapere il nome sarebbe una cosa importante.
Consuelo: Vorrei farti una domanda riguardante l’importanza della voce nella letteratura. Penso che la letteratura marginale periferica sia un esempio di voce perché la problematizzazione della periferia arriva a noi tramite la voce di questi personaggi.
Rodrigo: Un poeta marginale periferico ha scritto questo breve poesia che mi piace molto: “Non scrivo per dar voce agli oppressi, io sono uno di loro, io sono qui, noi non siamo mai rimasti in silenzio, il mio popolo non è mai stato ascoltato”. La letteratura è un’attività estremamente di élite e per molto tempo è stata un’attività di privilegiati, legati a privilegi politici ed economici. Quando scriviamo stiamo dando principalmente voce, spazio e non solo al tema in questione, ma anche ai personaggi. Noi diamo voce. Io venendo qui sono una voce e sono una voce privilegiata della periferia di San Paolo in Europa e ciò non è negativo, ma è necessario riconoscerlo. Io, qui, parlo di me in quanto Rodrigo, ma sono un ponte per quella parte della letteratura brasiliana che non è riconosciuta e la mia responsabilità è maggiore perché devo mostrare testi molto buoni, per dimostrare che anche noi sappiamo scrivere, che sappiamo decorare le nostre storie. Io devo fare un buon lavoro per promuovere il nostro movimento.
Consuelo: Grazie al movimento della letteratura marginale le persone della periferia parlano e perciò io non riesco a distanziare le due cose: letteratura e voce sono inseparabili.
Rodrigo: Noi scrittori brasiliani parliamo di cose molto diverse. Molti dicono che il movimento marginale periferico già è vecchio, è passato, ma non lo è. Noi abbiamo creato una cosa che non esisteva prima, la collettività. E questo è una delle originalità della letteratura marginale periferica. La letteratura è stata sempre individuale, lo scrittore scrive e il lettore legge. Noi rompiamo con ciò. Ognuno fa il proprio lavoro ma abbiamo il Sarau[3] dove tutti si riuniscono. Nel movimento della letteratura marginale, uno scrittore che ha concluso un’opera chiama gli altri per dire «la pubblichiamo». Gli altri non fanno ciò, non hanno questa solidarietà.
Non accettano che si parli di letteratura marginale. Ma non sanno che esiste una grande differenza tra la letteratura brasiliana contemporanea e la letteratura marginale periferica che è letteratura brasiliana marginale periferica. Quando parliamo di letteratura marginale periferica ci viene chiesto se noi non siamo letteratura brasiliana. Certo che lo siamo, ma per esempio quando si dice che Drummond è modernista, si sta dicendo che lui non è letteratura brasiliana? Quando diciamo che Machado è realista, lui non è letteratura brasiliana? Noi siamo periferici, noi siamo letteratura brasiliana. Futurismo, romanticismo, naturalismo sono stati movimenti letterari e noi siamo un movimento letterario. E loro non vogliono capire ciò.
L’ intervista termina con la lettura di un suo testo inedito.
Sito dell’attività promossa da Rodrigo Ciríaco: http://mesquiteiros.blogspot.pt/
[1] Darcy Ribeiro fu un antropologo, scrittore e politico brasiliano molto conosciuto soprattutto per il suo lavoro con la popolazione indigena e per i suoi lavori riguardanti l’educazione in Brasile.
[2] Paulo Reglus Neves Freire fu un educatore, pedagogista e filosofo brasiliano.
[3] Il Sarau è un evento culturale o musicale realizzato in luoghi pubblici dove le persone si incontrano per poter esprimere e manifestarsi artisticamente.