La libertà dell’intelligenza e del cuore. Paul Claudel e l’Annunzio a Maria
12/10/2015 blog

di Amelia Ippolito

Il tema dell’Annunzio a Maria è coinvolgente e sconvolgente sotto molteplici aspetti; l’oggetto in questione sembra essere l’amore, ma mai come ce lo aspetteremmo, mai secondo la logica del mondo o secondo le modalità consuete a cui siamo stati educati e abituati: l’amore, nell’Annunzio a Maria di Paul Claudel, è sempre ispiratore di un livello diverso dal consueto e dal nostro sguardo calcolatore, è rottura di una logica misurata, è generatore di un disegno totalizzante dove l’io umano non è mai ridotto, ma sempre protagonista eccezionale.

La figura semplice e drammatica di Violaine si scaglia come un raggio di luce prepotente in tutta l’opera, ma non senza subire essa stessa l’evoluzione tipica di chi resta aperto allo stupore del reale e docile si lascia cambiare dall’eccezionalità degli eventi. Infatti, dapprima la protagonista ci appare come modello di figlia obbediente, di promessa sposa docile, di donna dal cuore casto e dall’intelletto curioso, per poi adombrarsi e diventare dolente, impassibile e innocente dinanzi al baratro del dolore che le si aprirà dinanzi.

Di quale amore Violaine ama o ha amato Pietro di Craon, l’altro protagonista drammatico, geniale dell’opera?

Compassione, pietà o un amore intessuto di stupore di fronte al destino immenso e misterioso del costruttore di cattedrali? Pietro, il genio, l’architetto, colui che costruisce ed unisce, colui che lega la tradizione di un popolo con le pietre di un cemento che dal passato trasportano in un futuro ignoto per lasciare un segno: il segno della memoria.

E cos’è mai, infatti, una cattedrale se non un luogo della memoria, della memoria e della preghiera che si fa alito di speranza per il futuro: una cattedrale è segno permanente di un popolo in cammino.

Pietro è simbolo di tutto questo, allegoria vivente di un legame che unisce tutti nella costruzione di un luogo e di un luogo dell’anima; lui costruisce per unificare, per legare, e unendo e legando lascia un segno indelebile di generazione in generazione.

Pietro di Craon è, dunque, l’incarnazione dello spirito medievale, di quell’epoca storica delle grandi costruzioni, epoca delle cattedrali di pietra ma anche delle “cattedrali del pensiero”, poiché è in questo momento che la filosofia con i suoi grandi maestri pone le radici profonde di un metodo che non riduce mai la ragione, ma la esalta e la eleva verso le specie, le essenze, gli universali.

Pietro è anche simbolo di una vocazione al tutto, alla totalità di un disegno più grande, superiore e di cui Violaine resta solo un particolare: Pietro perde per un attimo la totalità delle cose per la visione di questo particolare. Perde, nel suo tentativo di violenza fisica della stessa Violaine, la sua vocazione ad uno spirito cosmologico, alla sua capacità geniale di possedere l’infinito e di essere posseduto totalmente dall’infinito stesso, per la debolezza di un attimo sfuggente, per l’errore e il peccato che si radica nello spirito umano.

Eppure Pietro non si identificherà solo con il suo male, con il suo errore, poiché il peccato non definisce l’uomo e il male non è l’ultima parola nella nostra storia esistenziale; Pietro è l’uomo che sa andare oltre, ma con l’aiuto della stessa Violaine.

L’opera, così proposta, sembra essere anche un tentativo ben riuscito della valorizzazione della donna intesa come salvezza, come riscatto e mediazione paragonabile a Santa Lucia, a Beatrice o alla stessa figura evangelica di Maria di Nazareth.

È Violaine a indicare la strada del ritorno nello smarrimento di Pietro, incarnando così una tensione all’ideale, in quanto appare in questo modo incarnazione di giustizia, di sapienza, di speranza.

Eppure, la stessa figura di donna salvatrice e mediatrice di un ideale superiore, resta vittima sacrificale poiché nel suo trasporto umano verso Pietro e nel bacio ultimo che concede all’uomo, le viene trasmessa la lebbra.

Tutto ad un tratto non più la figura di Maria mediatrice ci appare adesso, ma del Cristo, uomo del dolore che ben conosce il soffrire, il Cristo reietto dagli uomini, il Cristo di Isaia ripudiato ed emarginato perché creduto maledetto da Dio.

Tutto cambia. La lebbra considerata vero castigo biblico marchia Violaine e il suo destino di sposa felice con il promesso Giacomo, tutto ad un tratto la felicità sembra annullarsi, Violaine ora ha il volto del castigo e del castigato: il male di Pietro sembra essergli disegnato sul corpo e per sempre.

La lebbra è un’altra metafora dell’opera, di questo affresco medievale misterioso, composto di chiaroscuri e codici da decifrare.

Sappiamo come nella stessa Bibbia la lebbra era considerata un castigo di quel Dio che non aveva ancora rivelato il suo volto umano al suo popolo, ma era il Dio geloso dei salmi di Davide, il Dio giustiziere e castigatore del popolo d’Israele; lo stesso Francesco d’Assisi farà risalire alla lebbra il segno della sua conversione più profonda, quando avrà il coraggio di abbracciare un lebbroso che solo fino a qualche momento prima lo spingeva ad orrore e ripudio.

Violaine, allora, è simbolo e sintesi di tutto questo, è un abbraccio all’infinito e un infinito che ti abbraccia, è una tenerezza senza uguali nel bacio donato a Pietro e nell’accettazione, poi, del morbo, un’accettazione mai rassegnata, ma tipica dell’agnello umile e mite di cuore che semplicemente obbedisce agli eventi del reale che ci circonda.

Violaine bacia Pietro assumendo su di sé il suo male, il suo dolore, la sua piaga, anche la piaga della sua anima. È un attimo, ma un attimo di mistero assoluto che cambia il destino o semplicemente, lo conferma nella sua imprevedibilità.

La sorte di Violaine, infatti, da quell’attimo in poi cambia; la giovane donna sarà emarginata, ripudiata, esclusa, ma forse è proprio questa l’espressione vitale e reale, cioè vera, dell’amore inteso come vocazione alla totalità e all’ideale, al Mistero, non reattività o semplice, banale attrazione, bensì tensione vibrante al vero e al bello che è in ciascuno di noi come traccia del Divino che ci possiede.

È tensione alla giustizia, è essere per un altro, è essere per un disegno superiore: l’amore come essere per l’assoluto.

Violaine solo poco prima aveva esclamato: com’è bello essere al mondo e come sono felice!

Ora tutto cambia. Tutto ad un tratto non c’è più posto al mondo per lei che ne resta emarginata: lebbrosa tra i lebbrosi ai confini della città.

È la rottura completa con la logica del mondo. Violaine non ne fa più parte: è fuori dalla sua logica meschina e ristretta, Violane ora è l’eccezione alla regola, l’alternativa alla meschinità.

Fino a quel momento aveva vissuto una corrispondenza immediata e semplice con le cose del mondo, era colma di vita e la vita la attraeva a sé, ora ne è come strappata, per la lebbra e il ripudio di Giacomo, lo sposo che non le crederà perché crede solo ad un’evidenza meschina che è parvenza e falsificazione di quella vera evidenza che è invece mediata dalla fede, dalla fiducia. Giacomo la ripudierà lasciandola sola alla sua sorte e rinnegandola per sempre; Violaine è allora come strappata alla quotidianità delle circostanze e all’ordine consueto delle cose semplici per essere trasportata con obbedienza mansueta di fronte all’abisso.

Eppure è proprio qui, dinanzi alla voragine, al vuoto, che si gioca la libertà dell’umano. È qui che l’uomo può scegliere se nell’oscurità vuole vedere il fondo, sempre più oscuro, o risalire verso l’inizio di un timido bagliore: Violaine sceglie la luce.

La giovane donna sceglie il segno e rifiuta le apparenze obbedendo agli eventi, segue il flusso dinamico della realtà, senza condizioni e senza impeto di rabbia o ribellione, ma anche senza rassegnazione: piuttosto sceglie la speranza.

L’incontro con Pietro, paradossalmente e secondo la categoria dell’assurdo di Kierkegaard, ha portato così, nella vita della giovane, una opportunità di cambiamento con l’eccezionalità di un evento drammatico e che, proprio per essere eccezionale, ha avuto bisogno di attraversare il deserto, il dolore, il sacrificio che rende tutto più vero, perché tutto più stabile e radicato.

Ecco allora la chiave di lettura segreta dell’opera: il sacrificio come scoperta del vero e la scoperta del proprio posto nel mondo!

Cioè, capire, comprendere sulla propria pelle, nella propria carne, la totalità della storia del proprio io. Capire e seguire. Seguire, non l’attimo o l’impeto così come suggerisce la società moderna, non l’amore come pura reattività, ma seguire o inseguire quella nota segreta seppellita in ciascuno di noi e che tutto ad un tratto trova una corrispondenza al di fuori di sé, vale a dire, è come riflessa nella realtà che ci circonda, nell’eccezionalità di un incontro umano rivelatore del proprio sé più nascosto.

Violaine ha dovuto percorrere un deserto drammatico per penetrare il buio e scorgere un’alba eterna, per risalire dall’abisso più splendente di prima; l’amore, allora, non può fare a meno della croce perché sia vero e non perché vogliamo sublimare o idealizzare le nostre pulsioni segrete, ma perché solo il sacrificio rende umano un amore, il più umano possibile, e vale a dire: più vero. Autentico.

Quando Pietro raccoglierà il corpo ormai morto di Violaine pronunzierà: “la mia donna è morta. Violaine è morta.” E nel dramma ancora un bagliore di luce: “la pace, chi la conosce, sa, che la gioia e il dolore in parti uguali la compongono.”

Tutto ritorna al suo posto. Violaine tra le braccia di Pietro, Pietro affidato al suo destino e offerto alla sua vocazione verso la totalità di un disegno più grande e misterioso.

“Perché affannarsi tanto, quando è così semplice obbedire?”

In fondo non esiste il futuro se non nell’attesa e il presente si limita ad accadere: resta la memoria, non come nostalgia, ma come luogo della promessa.

Infine, le pagine dell’Annunzio a Maria contengono tutto, la vita, la morte, la resurrezione, contengono la tensione religiosa all’Ideale e a quella totalità di cui noi siamo parte incompiuta e inconsapevole se non riconosciamo l’eccezionalità degli eventi, la sana normalità dell’obbedienza alla nostra vicenda esistenziale, lo stupore dinanzi al nostro rapporto con l’assoluto.

L’alternativa a tutto questo è il mondo che ci circonda, la società delle ideologie e delle speranze interrotte, l’amore come fugace e banale attrazione fisica, il dolore come scoglio insormontabile e macigno insostenibile. Qui si gioca la libertà dell’intelligenza e del cuore: scegliere di obbedire agli eventi farà la differenza.

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Comment da FRANCO - 17 ottobre 2015 alle 10:23

Mi ha affascinato. Ho ritrovato lo spirito e le parole di don Giussani quando ci parlava di questa opera. Sono sicuro che l’autrice ha conosciuto don Giussani. O no?
Ancora complimenti.
Saluti.
Franco