di Luca Onesti
Già alcuni mesi fa, sul blog di Caffè Orchidea, abbiamo recensito un libro di Caravan edizioni. Attivo dal 2010, il piccolo editore romano si sta caratterizzando, tra le altre cose, per il percorso di ricerca che sta facendo nella letteratura africana, dell’Est Europa e soprattutto dell’America del Sud. Se già abbiamo parlato del cileno Diego Zúñiga, basta andare a scorrere le ultime uscite di Caravan per scoprire diversi altri scrittori, in alcuni casi giovanissimi, del vasto e quasi sconosciuto in Italia, panorama letterario sudamericano. La collana Traviesa, in particolare, nasce della collaborazione con il collettivo Traviesa, un gruppo di scrittori argentini, cileni, uruguaiani, guatemaltechi, boliviani, messicani, colombiani, cubani, peruviani e spagnoli riuniti nel blog mastraviesa. Il collettivo edita trimestralmente un’antologia a tema, che Caravan ha deciso di portare in Italia, in formato ebook.
Oggi però vogliamo parlarvi di un altro libro di Caravan, La straordinaria tristezza del leopardo delle nevi, dell’autore brasiliano Joca Reiners Terron, nella traduzione di Vincenzo Barca e Serena Magi.
Il romanzo si intreccia in una San Paolo notturna e fantasmagorica, popolata da drogati di crack che si aggirano come zombie per le strade deserte. Ma a questo aspetto di spersonalizzazione tipico di una grande metropoli contemporanea, l’autore oppone le caratterizzazione di uno dei quartieri storici della città, Bom Retiro. Il libro è nato infatti a seguito di un lavoro teatrale che ha visto Reiners Terron impegnato in una ricerca sul campo, durata diversi mesi, insieme alla compagnia teatrale Teatro da Vertigem, un gruppo nato nel 1991 con un approccio sperimentale al linguaggio teatrale, sia per quanto riguarda la creazione dei testi drammaturgici che per quanto riguarda i luoghi di messa in scena. Il contatto diretto e approfondito con il quartiere, nel quale la compagnia ha realizzato e poi messo in scena Bom Retiro 958 metros è stato dunque ispiratore del romanzo, scritto successivamente all’intensa esperienza teatrale.
Il dattilografo protagonista del libro – protagonista nel senso che è colui al quale è delegato, attraverso l’uso della prima persona, il compito di tenere insieme e poi far convergere le diverse linee delle vicende narrate – viene mostrato mentre ad un certo punto si mette a scrostare i vari strati di vernice della facciata di un edificio, fino a trovare l’azzurro che ricordava dall’infanzia. Bom Retiro si è formato così, per successive stratificazioni: all’inizio del Novecento gli immigrati italiani, poi gli ebrei, negli anni ’70 i coreani, negli ultimi anni i boliviani e i peruviani. In una città che, in una visione materialista e priva di memoria, come poche continuamente si distrugge e si ricostruisce fagocitando sé stessa, Reiners Terron cerca le tracce del passato che sopravvivono, seppure soltanto nei legami sociali creati dalle logiche commerciali, della circolazione del capitale e del lavoro: gli ebrei proprietari degli immobili affittano ai commercianti coreani che, a loro volta, assumono, sottopagandoli, impiegati boliviani o peruviani. Bom Retiro è un «ritaglio metonimico della città di San Paolo», ha spiegato l’autore in diverse interviste, appunto perché assurge quasi a personaggio in grado di gettare una luce sul passato della città che la società brasiliana tende altrimenti a mantenere occultata.
Se il giorno di Bom Retiro segue la trama dei rapporti di lavoro, la notte si apre sulle solitudini dei personaggi del romanzo. La voce narrante è quella di un cinquantenne che di notte svolge l’attività di dattilografo presso il posto di polizia del quartiere e di giorno si occupa del negozio di proprietà del padre, un ebreo non più autosufficiente che ha bisogno delle sue cure. Il libro si apre sulla sua insonnia, e ne segue il delirare, esplorando l’accavallarsi dei pensieri del personaggio. In un montaggio che ha molto di cinematografico, il focus si alterna poi su quella che è chiamata la “creatura”, della quale si occupa un’infermiera specializzata in malati terminali, che per contratto deve tenerla chiusa in un appartamento evitandole qualsiasi contatto con l’esterno e soprattutto con la luce del sole. Della “creatura” non è data, inizialmente, nessuna specificazione che ne faccia intendere l’umanità o l’animalità. Altro personaggio è un tassista proprietario di tre rottweiler, che si diverte a procurare di volta in volta ai suoi cani le vittime per delle cacce notturne. Sarà in una gita al “Nocturama”, il parco biologico della città dedicato agli animali notturni – e in cui è prigioniero anche il leopardo delle nevi che dà il titolo al libro – che il destino dei personaggi si incrocerà.
Il tassista insegue, con la sua muta di cani, la perfezione in quella che lui intende come una sinfonia fatta di ferocia e coordinazione. I tre rottwailer, durante la caccia, sembrano sviluppare un’intelligenza collettiva che supera la loro individualità, e si dirigono ognuno verso una preda diversa, automaticamente e senza bisogno di seguire alcuno schema se non quello dei loro istinti. La “creatura” invece, nel buio della casa che la protegge, sviluppa una dolcezza tutta umana. L’infermiera dimostra per lei una grande devozione perché la terribile malattia alla pelle che la affligge la avvicina alla fermezza con cui alcuni santi hanno affrontato le loro infermità. Ci sono stati diversi santi lebbrosi in Europa, ma soprattutto, nel Brasile contadino del XVII secolo, ad Ouro Preto nello stato di Minas Gerais, è vissuta una contadina nera di nome Porfira, mai beatificata dal Vaticano ma ancora venerata dagli allevatori di bestiame a protezione della fertilità, affetta da una malattia simile a quella della “creatura”.
Ma la sua dolcezza umana si esprime soprattutto nelle sue doti nel disegno. L’infermiera infatti, che le legge tutte le notti in lingua inglese le voci di un’enciclopedia sugli animali, un giorno si accorge che manca il volume con le lettere l-m. Dopo alcuni giorni lo troverà sotto il divano, aperto alla voce dedicata al leopardo delle nevi. Insieme al libro, diversi disegni, sorprendentemente belli ed elaborati.
Le pagine dedicate all’ “Esposizione sul Leopardo delle nevi” che l’infermiera organizza in casa con le opere della “creatura”, sono le più belle e poetiche del libro. Attraverso di esse conosciamo la storia che ha portato dalle vette dei Monti Altai, in Russia, alla cattività di uno zoo brasiliano, il giovane esemplare della rarissima specie felina a rischio di estinzione. Fu un serpente a tentarlo, suggerendogli di avvicinarsi agli umani, di osservare «lo spettacolo della loro miseria». Il leopardo lasciò così i suoi luoghi d’origine, nonostante gli avvertimenti di suo nonno, che gli aveva detto di diffidare degli uomini. Aggirandosi nei pressi di un accampamento, il leopardo sentì il suono della voce di una donna che cantava per il funerale del piccolo figlio morto. «Nell’udire quel suono il leopardo delle nevi ammise immediatamente l’innegabile superiorità del genere umano rispetto agli altri animali. Nonostante tutta la fragilità fisica e morale, quei poveri esseri deboli e di umore instabile sapevano cantare con una malinconia straordinaria. Niente poteva eguagliare la loro tristezza. Quel canto era un’affermazione di bellezza incontestabile, che superava la grandiosità dei Monti Altai da cui lui proveniva, e batteva la velocità del vento, lo splendore del sole e l’irresistibilità dei fiori».
Leggendo queste pagine, ci sembra quasi di trovarci nell’antro della caverna preistorica dove decine di migliaia di anni fa i nostri antenati muovevano, attraverso la scoperta dell’arte, i primi passi incerti verso l’umanità, dipingendo sulle pareti l’animalità che stavano abbandonando. Questa suggestione, che ci ha fatto pensare a George Bataille e al bellissimo saggio Lascaux. La nascita dell’arte, è come confermata da un’altra immagine fuggevole – l’infermiera e la “creatura” la vedono guardando la TV – che compare nel libro: un gruppo di bisonti che si lanciano da un dirupo, nel vuoto. Il documentario in televisione parla di possibile suicidio collettivo della mandria di animali che si vedono sempre più privati del loro habitat naturale. Nella grotta di Lascaux di cui parla Bataille, c’è un dipinto rupestre che richiama alla memoria questa scena: un cavallo precipita nel vuoto, pare a seguito di una tecnica di caccia che consisteva nell’inseguire gli animali selvaggi spingendoli verso i dirupi che gli uomini conoscevano.
Il romanzo di Joca Reiners Terron dunque unisce la tensione crescente di un poliziesco a pagine di profonda riflessione sul limite che distingue e allo stesso tempo confonde l’umanità con l’animalità, in un’interrogazione che si affaccia sul limite della nascita preistorica dell’umanità così come sente il presagio terribile di una sua possibile estinzione.
Abbiamo seguito solo alcune delle linee di riflessione che questo libro, tutto sommato non troppo lungo, ci ha suggerito, ma ne abbiamo tralasciate altre perché lo abbiamo trovato sorprendentemente denso. La sua non perfetta costruzione formale anzi è la riprova migliore della sua ricchezza, come se l’autore si fosse trovato di fronte ad una materia troppo viva e dotata di energia propria, difficile da domare.