La prima immagine di Venezia – qualcosa che resterà scolpito nel mio mosaico di prime immagini – è il ponte di Calatrava. Scendiamo dal pullman e ci troviamo subito di fronte a questo ponte. Di là, il canale e gli altri ponti, quelli vecchi e bianchi. Eccoci, ci siamo.
Ogni volta che parlo dei miei viaggi dico di aver visto su e giù, in linea di massima, tutta l’Italia. E poi, subito dopo, preciso: eccetto Venezia. Questo fino ad oggi: ora potrò finalmente prendermela tutta l’Italia. In maniera goffa e presuntuosa, si intende. Il meglio non l’ho ancora visto: di questo ne sono certo. Mi basta pensare che il meglio è sempre quello che deve venire, e che ci sono posti che non hanno nomi importanti, che oggi probabilmente nemmeno considero nei miei piani di viaggio futuri e che poi, un giorno, mi si riveleranno in tutta la loro bellezza. E allora dirò: ecco, ora ho completato l’Italia. È un ragionamento un po’ alla Risiko, lo so.
Quando ci siamo immischiati al flusso di persone che riempiva un traghetto ed abbiamo cominciato a navigare il canale, in quel preciso momento, io e Alessia ci siamo guardati e ci siamo detti – senza dircelo per davvero, ma ci siamo capiti perfettamente – che sì, sono le 10, siamo a Venezia: questo sarà un grande giorno!
Sono bastati cinque minuti a farci disilludere di tutto questo romanticismo veneziano, poi. Il traghetto ha cominciato a fare un giro largo ed assurdo, il cielo si è annuvolato. Ore 10.05: pioggia. Una pioggia che sarebbe durata tutto il giorno.
Ok, prima di partire ci siamo assicurati di aver chiuso il gas e tutto ciò che era chiudibile. Ma solo ora ci siamo accorti di aver dimenticato i k-way. Poco male: compriamo due poncho gialli. Ogni volta che mi guardo dalle vetrine penso di essere una contaminazione fra Padre Ubu e un Minions scappato dalla Universal Pictures. La pioggia diventa sempre più insistente: penso a Woody Allen che nei suoi film cammina sotto la pioggia e si mette a filosofeggiare sulle sue storie d’amore. Poi mi spiego perché ormai ogni suo film è peggio di una puntata di Beautiful.
Venezia, con o senza pioggia, ha un fascino impareggiabile. Penso che mentre percorro queste strade, tutto ciò che vedo vive della stessa sostanza dei ricordi: è come se questa giornata sia direttamente processata dal mio cervello come ricordo, anche nel momento stesso in cui la sto vivendo.
Nel tardo pomeriggio prendiamo il treno per Trieste. Trieste: Joyce, Svevo, Saba, Magris. Quando arriviamo alla stazione c’è un acquazzone e Luca – il proprietario del B&B che ho prenotato – rispondendomi al telefono dice che la camera sarà pronta tra circa un’ora.
Ok, raggiungiamo Piazza dell’Unità! Il percorso dalla stazione alla piazza è una geografia improvvisata di realtà e letteratura. Racconto ad Alessia alcuni passi de l’infinito viaggiare di Magris. Ricordo di aver letto che Joyce, da qualche parte, qui, ha scritto molte pagine dei suoi libri.
Arriviamo al B&B “I tetti” stanchi e bagnati. Luca, il proprietario, ci introduce in uno spazio rubato a una soffitta abbandonata, tutto arredato con materiali di riciclo e tanti libri alle pareti. Quando ci affacciamo alla finestra dalla nostra camera, io ed Alessia, pensiamo che la giornata non possa finire in modo migliore: da qui si vede Trieste, si vedono i tetti delle altre case, di fronte a noi, in lontananza, si vede anche nelle finestre. È un paesaggio stupendo, nel quale si incastrano storie, luci, mura e stelle.
No, non mi muovo di qui. Trieste è bella. Vista dai tetti, è magnifica.