di Giuseppe Avigliano
Guardare l’apocalisse dalla finestra di casa è possibile. Siamo su una soglia, che probabilmente è il ciglio di un burrone, e da qui, da questo spazio ancora fermo, sicuro e confortevole, le conseguenze dell’abuso di energia del nostro condizionatore, lo spreco di acqua dei nostri lavandini, lo sperpero di risorse delle nostre case, non ci presentano alcun conto. Ma per quanto tempo, ancora?
Qualcosa, là fuori. Quando ho chiesto questo titolo a una commessa della Giunti mi ha detto che il libro non era disponibile, ma se preferivo potevo scegliere fra le proposte del fornitissimo settore thriller e horror. Di fatti, a sentire un titolo del genere, vengono in mente cose del tipo Non aprite quella porta o Il terrore viene per posta.
Tutt’altro. In questo caso, fuori, non ci sono fantasmi. Non c’è fenomeno sovrannaturale. C’è l’uomo e le sue conseguenze. Bruno Arpaia è un maestro, ha l’occhio lungo dei profeti e la capacità di una scrittura franca, priva di orpelli ed arzigogoli. Fuori è il futuro prossimo, che ha già le caratteristiche del tempo presente. Non c’è il distacco sicuro e inattaccabile dei secoli a separarci dall’evento. C’è il confronto di dati scientifici, la minaccia dei cambiamenti climatici già in corso, che ci avvertono che siamo sul lastrico. Che qualcosa sta cambiando, e continuare a voltare lo sguardo ci porterà dritti alla catastrofe.
In un’Europa stravolta e irriconoscibile, Livio Delmastro è un profugo ambientale, proprio come tutti gli altri. L’Italia, per quello che valgono ancora le delimitazioni politiche, è un posto invivibile, in cui non c’è acqua, né terreni fertili. L’unica salvezza sono i paesi scandinavi, dove il clima favorisce ancora gli insediamenti umani. Le rotte dei migranti africani di oggi, in fuga da guerre e povertà, si ripetono in maniera altrettanto dura e inumana in quelle degli europei di domani, costretti a pagare tutto ciò che hanno, affidandosi a spietati mercanti di tratte, pur di inseguire una speranza: l’unica possibilità di vita ancora perseguibile.
Una geografia desolante offre il palcoscenico al grado zero dell’umanità, una fila interminabile di umani, che dell’umano, ora, conservano o tutto o niente. La sopraffazione del più forte s’aggrappa ancora agli ultimi centri di potere, che si organizzano in leghe dalla discutibile moralità e in Stati – quelli ancora esistenti – che fanno dell’esclusione il loro punto di forza. Un’umanità totale, invece, quella di Livio, che della sua vita tranquilla ha ormai perso ogni cosa, famiglia, carriera, benessere e che non desiste dall’impiegare tutte le sue ultime forze per aiutare chi gli sta vicino, che è forse – questo − l’ultimo modo possibile per dirsi ancora uomini.
Non sarà un caso, poi, che certe letture arrivino più o meno nello stesso periodo. Così Scarti, di Jonathan Miles, l’ho trovato, solo, unica copia, su uno scaffale di una libreria, poco tempo dopo. Se qui non ci sono scenari apocalittici, c’è però una geografia di luoghi, attualissimi, che rimanda una mappatura degli sprechi materiali ed umani. La grandezza di Miles è in questo, nel trattare gli scarti materiali allo stesso modo di quella economia sentimentale che destina alla maggior parte dell’umanità i resti di quei pochi privilegiati che si godono – e consumano – il mondo. Dal particolarismo di Talmadge e Micah che vivono serenamente degli avanzi che riescono a trovare – in un appartamento occupato, di una costruzione inutile al profitto del ricco proprietario – alla questione di rilievo planetario affrontata da Elwin, membro di una commissione che dovrà preoccuparsi di trovare il linguaggio giusto per comunicare a chi verrà fra diecimila anni che in un determinato posto sono sotterrate pericolosissime scorie radioattive. Un libro che fa degli scarti la materia principale intorno a cui tutto ruota e che inchioda una verità inattaccabile: fra tutte quelle buste ai margini della strada è possibile scovare, senza nemmeno faticare troppo, il vero volto dell’umanità.
Dall’esodo europeo del primo libro alle periferie abbandonate del secondo c’è un filo conduttore che da una parte all’altra dell’Atlantico porta con sé domande e problematiche a cui è probabilmente impossibile trovare una soluzione. Difficilissimo, anche solo abbozzare una risposta. A quello stesso filo sono legati i destini del commercio dei prossimi anni, nel caso fosse approvato il TTIP: un trattato che prevede sdoganamenti, libertà e un nuovo Far West per i grandi capitalisti, in cui dovrebbero essere attori protagonisti 50 stati americani e 28 europei – circa 820 milioni di persone – ma non si capisce chi sia a trattare, con quali modalità e per quale strana concezione della politica e del mondo tutte queste trattative debbano essere tenute segrete, o quasi.
È un po’ tutta qui, la storia presente e futura del mondo. Racchiusa in due libri, capitatimi un po’ per caso. Dopo i consigli pindaricamente coraggiosi della commessa Giunti, il libro di Arpaia l’ho ricevuto in regalo. Quello di Miles, con quella stupenda copertina che si ritrova, era impossibile lasciarlo tra gli scaffali. Se ci fosse un TTIP più necessario e urgente, che parlasse di ambiente, clima e futuro – e non di soldi e sopraffazione, come sta succedendo – dovrebbero essere Arpaia e Miles a discuterne. Ma questa è un’altra storia; e questo – è proprio il caso di dirlo – è tutto un altro mondo.