Monologo tratto dai libri IV e V delle Metamorfosi o Asino d’oro di Apuleio
di Alfonso Natale
Due cose della mia esistenza non avrei mai immaginato: la prima è che sarei stata favorita dai beni più grandi che possano toccare a una donna mortale (ricchezza, bellezza, onori, amore); la seconda è che questa infinita felicità si sarebbe tramutata in un abisso di miseria e tristezza.
La mia condizione di ricca principessa, di ragazza da tutti esaltata per una bellezza insuperabile, di donna lodata e persino celebrata dal popolo come una dea, fu migliorata ancora di più e giunse a vette che non solo non speravo, ma nemmeno lontanamente immaginavo. Divenni regina, sposa di Cupido, l’alato dio dell’amore perennemente giovane, e nuora della potente Venere, la dea della bellezza, della grazia, della passione amorosa.
Fui portata dal soffio del soave Zefiro in una dimora stupenda, che aveva soffitti in legno di cedro e avorio retti da massicce colonne d’oro, e pavimenti nei cui preziosi mosaici erano incastonate le pietre e i monili più preziosi. Era il regno e la dimora di Cupido mio sposo, la cornice dove consumammo la nostra passione. Eteree voci di servitori senza corpo esaudivano e accontentavano ogni mio desiderio. Ogni giorno la tavola imbandita con i cibi più gustosi e i vini più dolci mi sfamava, un bagno profumato e soave mi ristorava. Ma come non potevo vedere i servi, così non potevo guardare in faccia il mio sposo; ogni notte mi abbracciava e mi amava con voluttà, ma nel buio della nostra stanza nuziale, senza che potessi vedere come era fatto.
In fondo però non sapevo nemmeno chi era il compagno delle mie notti. Quando mio padre volle chiedere al dio chi mi avrebbe mai sposata, dal momento che la mia bellezza sovrumana faceva scappare tutti i mortali, che non se ne sentivano degni, la risposta dell’oracolo fu spaventosa:
«Sopra un’alta montagna lascia, o re, la fanciulla ornata per le nozze di abiti funerei. Non aspettarti un genero nato da stirpe mortale, ma un crudele, feroce mostro viperino. Egli volando con le ali nel cielo dà il tormento a tutti e con ferro e con fuoco distrugge ogni cosa; lo stesso Giove lo teme, e gli dei ne hanno terrore, e persino i fiumi infernali e le tenebre dello Stige».
I tremendi versi però non si riferivano a un mostro dalla forma di serpente, come le mie sorelle, infinitamente invidiose, mi fecero sospettare, causando la mia rovina; era Cupido che faceva paura a tutti, immortali e mortali, con i tormentosi affanni e le laceranti consunzioni della passione amorosa, suscitati dalla sua freccia divina: ahimè, me ne avvidi bene quando mi ferii da sola con il suo dardo, maledetta la mia sciocca curiosità! E fu Cupido a sollevarmi con il vento dalla rupe indicata dall’oracolo e a portarmi nel suo palazzo incantato.
Ah, se non avessi prestato ascolto alle mie sorelle, e avessi obbedito al divieto di Cupido: non avrei dovuto vedere, alla luce della lanterna, quel volto sovrumano; non avrei dovuto toccare la punta della sua freccia fino a ferirmi e a trovarmi improvvisamente innamorata di Amore. L’olio della lucerna cadde e colpì Cupido; così lui si svegliò e mi scoprì. Deluso, volò via immediatamente, rivelandomi che era stato per il mio bene se mi aveva vietato di vederlo. E io che temevo di aver sposato un serpente mostruoso, e credevo di trovare pace soltanto spiandolo di nascosto per scoprire chi era.
Ora lui è lontano, e io mi struggo di amore per lui; ho vagato per paesi e città, per montagne e pianure cercandolo, ma invano. Mi sono rivolta alle dee più potenti, a Cerere e perfino a Giunone, ma nessuna delle due ha voluto accogliermi e porre rimedio al mio tormento; temono entrambe di offendere Venere… già, Venere, colei che mi ha sempre odiata, da quando, ammirando la mia bellezza, i mortali si dimenticavano di lei e trascuravano le sue are; colei che disprezza la mia nascita mortale e detesta il figlio di suo figlio che porto nel grembo, e che lei considera un bastardo.
Lei mi ritiene una sua ignobile schiava, altro che nuora, e ha cercato in tutti i modi di annientarmi; dopo avermi fatto fustigare con le sferze da Angoscia e Tristezza, che mi hanno inflitto sevizie di ogni genere, mi ha sottoposto a prove che neanche Ercole divino… mi ha imposto di separare e riordinare un mucchio enorme di fave ceci lenticchie semi di papavero frumento miglio e orzo; mi ha ordinato di cogliere un fiocco dal vello d’oro di pecore per nulla mansuete, ma aggressive e dal morso velenoso; mi ha intimato di raccoglierle l’acqua dalla sorgente dello Stige, attraverso un dirupo inaccessibile; infine mi ha comandato di scendere negli Inferi, affrontando Caronte e il cane Cerbero, solo per portarle la bellezza contenuta in questo vaso a parte di Proserpina, regina di quaggiù… maledetta ancora la mia curiosità rovinosa… mi aveva ben raccomandato di non aprirla… ora sono travolta dal sonno e temo che non riuscirò a risalire fino al mondo dei vivi, e sarò costretta a restare qui negli Inferi… ah se il mio amato Cupido venisse a salvarmi con le sue ali veloci!