Kierkegaard e la scelta di Abramo
07/10/2015 blog

di Amelia Ippolito

Johannes de Silentio è uno dei tanti pseudonimi scelti da Kierkegaard per la sua opera Timore e tremore, scritta nel 1843 dopo la dolorosa rottura del suo fidanzamento con Regina Olsen.

L’autore, che si dichiara in questa stessa opera, poeta e non filosofo, continua la sua polemica con il sistema filosofico hegeliano e proprio in Timore e Tremore prospetta la possibilità della sospensione dell’etica, contro ogni sorta di sistema o principio rigido e determinato, per un eventuale salto alla sfera religiosa. Infatti, quel Dio che ha ordinato ad Abramo di sacrificare Isacco ha imposto a lui, allo stesso Kierkegaard, di rinunciare a Regina Olsen.

In questa immedesimazione empatica dell’autore con il profeta biblico, in questa sapiente e singolare allegoria e lirica dialettica, Kierkegaard coinvolge i suoi lettori a più livelli in una forte tensione religiosa per la quale lo stesso Abramo si rende incomprensibile agli occhi della massa e della società, in quanto sceglie la categoria dell’assurdo nel suo rapporto speciale con l’assoluto.

Ed è questo il punto più convincente di Timore e tremore, questo rapporto nascente con il divino, che diviene un io a cui poter dare il tu. Infatti Abramo costituisce il primo momento in cui Dio prende un volto umano e il Mistero si comunica in un rapporto tipicamente umano: Dio entra in relazione con l’uomo, ma sceglie di farlo attraverso una scelta, ponendo all’uomo stesso una domanda di sacrificio.

Per Kierkegaard Abramo può sembrare un assassino, eppure compie un sacrificio. Ecco il dramma e la contraddizione interiore di Timore e Tremore, ecco l’angoscia segreta del poeta Johannes de Silentio. Un’angoscia che Abramo non può comunicare al mondo, un’angoscia segreta e seppellita in lui che può salvare il mondo!

Ecco il conflitto spirituale di Abramo in cui Kierkegaard si rivede e si riconosce come in uno specchio confuso e per il quale si ostina a combattere il sistema filosofico di Hegel, in cui ritrova l’opposizione, da lui tanto contestata, tra interno ed esterno, per cui la sfera dell’interiorità perde ogni sua consistenza specifica. Contestando ancora, non da ultima, la risoluzione del momento della fede che va oltrepassato nel divenire dello spirito.

L’eterno ritorno poi, in cui Kierkegaard vede eliminata la categoria dell’avvenimento. E invece, è proprio l’istante a portare la novità che prima non c’era e chiamiamo, appunto, avvenimento. Ecco ciò che accade ad Abramo come a Kierkegaard: Dio diviene avvenimento.

Dio entra nella mia storia personale, nella mia vicenda esistenziale, entra nell’attimo presente e l’eterno ritorno viene a mancare, poiché l’attimo nuovo porta con sé un avvenimento nuovo che prima non era mai accaduto. Certo, in Abramo Dio entra chiedendo un sacrificio e un sacrificio che porta a sospendere l’etica in virtù di una scelta religiosa: l’uccisione del figlio Isacco.

Questo porta ad uno scandalo della ragione secondo il quale, per Kierkegaard, bisogna oltrepassare il livello etico e morale, per spingersi verso l’oltre di Dio, verso il Mistero per cui lo stesso Abramo diviene così “il cavaliere della fede”.

In Kierkegaard invece, il conflitto resta, la sfera etica, la sfera estetica e la sfera religiosa sembrano opporsi e l’autore non riesce a compiere il salto, la scelta.

L’angoscia, allora, si auto produce come un senso d’incompiutezza che non lascerà mai il giovane Kierkegaard e che lo porterà a rompere il suo fidanzamento con l’amata Regina, per chiudersi nella sua solitudine.

Abramo, invece, compie il salto nel buio, nel buio della fede e compie la scelta: sceglie di fidarsi.

Si fida di Dio e di quel mistero che solo alla fine rivelerà il suo volto umano: Cristo.

Infatti, cosa è mai il sacrificio incompiuto dell’uccisione di Isacco se non il presagio del sacrificio realizzato di Cristo?

Abramo per Kierkegaard allora, amò Dio nella fede e senza andare oltre la fede e come scrive lo stesso autore: “Rassegnato infinitamente a tutto ha ricevuto tutto in virtù dell’assurdo”.

“Il cavaliere della fede” fa una rinuncia infinita all’amore, ma è riconciliato con il suo dolore. Si compie così il miracolo in cui, in virtù dell’assurdo, Abramo compie il principio secondo il quale a Dio tutto è possibile.

A questo punto l’autore fa scorrere l’esempio di eroi tragici come Agamennone o Bruto, dinanzi a loro noi possiamo solo piangere, commuoverci, ma soltanto di fronte ad Abramo possiamo provare quel senso di orrore religioso, quasi come davanti ad un abisso o come quando si è presi da una vertigine: la fede allora è proprio timore e tremore.

Eppure Abramo con il suo salto nel buio e la sua scelta al di sopra dell’etica, ha conosciuto il paradosso della fede, dove la stessa morale non è abolita, ma assume un’espressione diversa: il paradosso, appunto.

Questa è la terribile responsabilità del cavaliere della fede: deve credere nel paradosso dove l’assassinio di Isacco – atto immorale – diviene “atto religioso” in forza dell’assurdo, secondo il quale a Dio nulla è impossibile.

Con Timore e tremore Abramo compie il salto dalla sfera etica a quella religiosa, ma Kierkegaard no. Resta prigioniero della sua angoscia e indeterminatezza, in bilico tra il Generale e il Singolo, tra l’estetico, l’etico e il religioso. Per lui resta l’angoscia, il silenzio, la solitudine.

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Comment da Gabriele Aprea - 25 ottobre 2015 alle 10:50

Nel testo Timore e tremore, il filosofo si riferisce ad un argomento abilmente celato e cioè alla paura del parkinson, di cui soffriva in maniera latente.
A proposito dell’episodio biblico, pochi sanno ed io sono tra quelli, che il primo sacrificio chiesto da Dio ad Abramo fu di smettere di fumare. Di fronte al netto rifiuto del patriarca Dio optò per una seconda soluzione: ” Almeno uccidi tuo figlio!” Abramo si sentì sollevato e ringraziò in eterno il Signore.
E poi criticano i Kamikaze e i fondamentalisti!!!
A questo punto l’unica speranza di salvezza è uccidere Dio e i suoi colleghi.