di Amelia Ippolito
Parlare di Leopardi a volte sembra anacronistico, certe volte quasi come commettere un peccato di pessimismo o come riempire l’aria con un’impressione di tristezza e negatività; del resto, i cattivi insegnanti e gli anni distratti del liceo, hanno appiccicato addosso al poeta ogni genere di etichetta e manifesto, lasciandoci perdere il vero gusto e senso di una poetica, sporcata dal pregiudizio, che salta da una generazione all’altra.
La scuola sì, lo rende pesante, lontano: non permette l’incontro.
Senti parlare di negatività sensistica e cerebrale e chi te ne parla non permette di intravvedere in lui e nel suo mondo poetico la positività del destino che è in lui come confermata, a fatica sì, ma mai negata del tutto e questo lo si vede proprio in quel senso di sproporzione, in quella sete d’infinito tipico delle anime grandi, immense e che contengono l’immenso.
Certe volte mi sembra di sentire una vecchia e bellissima canzone di Fabrizio De André e di pensare al giovane Leopardi, abusando di un accostamento non del tutto, però, inopportuno.
La canzone in questione è Amico fragile, dove un verso cita e fa parlare una compagnia, un coro di tanti “nessuno” che pronunciano con pietismo queste parole: “Se vuoi, amico fragile, possiamo occuparci due volte al mese di te…”
Ecco. Tutta la società passata e contemporanea, la scuola, qualche caro e stanco insegnante di lettere ha pensato e pensa questo del giovane Leopardi; lo guarda, lo studia, lo glorifica e poi sussurra: “Amico fragile, se vuoi potrò occuparmi due volte al mese di te…”
Ma il fondo di positività che c’è nella sua poetica, è evidenziato?
La sua sete d’infinito che genera il senso della sproporzione e quindi, il suo non partire mai da una riduzione, semmai da un limite, il limite umano, sono trasmessi dalla didattica sterile e da una scuola che calpesta i fiori, che vuole i suoi alunni incasellati nella categoria della normalità e dell’omologazione?
L’uomo, nell’antropologia leopardiana, si guarda e osserva sé stesso vivere, e in questa sublimità del sentire vibra il limite, ma un limite che non è mai riduzione, piuttosto è la soglia dell’eterno, quell’eternità che inizia già qui, sulla terra, sebbene nei travagli e nel dolore ed è sentore di una Presenza e di un “oltre” che si lascia solo intravedere nella sublimità del sentire: una bellezza che ferisce e una Presenza che fa scaturire, così, il senso della sproporzione.
Luigi Giussani ha parlato spesso del “gioco della penombra”. Infatti, se tu volti le spalle alla luce guardando la penombra dici: Introduce all’oscurità totale, cioè l’ultima parola qui è l’oscurità totale; ma se tu volti le spalle all’oscuro, dici: è il vestibolo della luce!
Allora, l’ultima parola è davvero solo la luce. L’ombra non spiega la penombra. Questo è il messaggio segreto dell’universo leopardiano, dove la bellezza non è mai la banale beltà dei nostri canoni televisivi o virtuali, ma è la Bellezza con la “B” maiuscola.
In questa prospettiva, dunque, la domanda più intima e nascosta rivolta alla natura, è uno sguardo diretto al Mistero, verso l’eterno e il suo dolore, non è più una riduzione dell’uomo o negazione totale, ma grido di “desideri infiniti e visioni altere…”
E la coscienza di essere un piccolo punto nell’universo non è la diminuzione nichilista dell’uomo, ma al contrario, l’esaltazione della dismisura e della sproporzione che è suscitata in noi dall’infinito che ci sta dinanzi, dal dislivello che vibra tra l’uomo e il Mistero che tutto lo avvolge.
No. Non si parte da una riduzione, ma da un’esaltazione del sublime e del tragico in cui noi, povere anime fragili, siamo immersi come nella buia caverna di Platone: sta a noi scegliere di credere o non credere realtà le ombre riflesse sulla parete; dietro ciascuno di noi c’è il sole della verità che illumina il cammino che abbiamo dinanzi e viviamo tutti nel “gioco della penombra”, nel fraintendimento del chiaroscuro, ma scegliere il sogno piuttosto che il segno, vorrà dire decidersi per l’ombra: cogliere la realtà, invece, sarà esaltare l’anima umana e gettare lo sguardo in un oltre che non delude.
Leggere Leopardi nella prospettiva sterile del malessere, del disagio, vuol dire ancora una volta scegliere il buio, ma ascoltare la sua poetica come tensione verso il vero, significa scegliere il vertice dell’inizio e l’inizio che non ha fine.
Credo che l’Autrice del testo abbia colto in profondità il segreto sentire e pensare di un autore che con troppa leggerezza è passato alla storia come un pessimista o, come ben dice l’Autrice, come un amico fragile.