Intervista a Isabela Figueiredo
06/05/2017 Interviste

di Luca Onesti e Consuelo Peruzzo

Scritto nel Portogallo della crisi economica e dell’austerità, dal 2011 al 2016, e uscito a gennaio 2017 per i tipi dell’editore Caminho, A gorda (titolo che in italiano significa: “la grassa”) di Isabela Figueiredo è un romanzo che racconta in prima persona la vita di Maria Luísa, una ragazza grassa, che si vede grassa ed è fortemente condizionata da questo sentimento. A gorda colpisce duramente il lettore, svelando l’intimità della protagonista, dei suoi pensieri delle sue esperienze, e compiendo un lavoro di scavo nella memoria, che torna più volte sugli stessi episodi e li illumina di una luce diretta, impietosa. Però, allo stesso tempo, al passo che racconta il lavoro su di sé di una persona fragile che si impone di essere forte, che si distrugge e si costruisce distruggendosi, restituisce il senso di una vita che non si arrende, piena di amore e di un coraggio capace di rinnovarsi costantemente, proprio perché consapevole delle proprie fragilità.

L’autrice è nata a Lourenço Marques, attuale Maputo, in Mozambico, nel 1963 e si è trasferita in Portogallo nel 1975. Insegnante di portoghese in una scuola superiore e giornalista, ha pubblicato nel 2009 Caderno de Memórias coloniais (Quaderno di memorie coloniali), che racconta la sua infanzia nel Mozambico coloniale e dà inizio a quella che verrà successivamente definita “letteratura del ritorno” (Caffè Orchidea ne ha già parlato qui).

A gorda, a pochi mesi dalla sua uscita, sta avendo un grande successo di vendite e di critica in Portogallo e merita di essere tradotto  e pubblicato in Italia. Dopo la lettura di questo che è certamente uno dei romanzi più belli tra le novità letterarie portoghesi di quest’anno, abbiamo incontrato l’autrice a Lisbona e vi riportiamo il dialogo che abbiamo avuto con lei.

Luca: Si può inserire A gorda nella cosiddetta “letteratura del ritorno”?

Isabela: Penso che i miei libri si possano inserire in molte cose allo stesso tempo, una di queste è la “letteratura del ritorno”, che ha avuto inizio con il Caderno de Memórias coloniais nel 2009. Questo argomento torna ad essere presente in A gorda e tornerà ad esserlo nel prossimo libro perché continua ad essere un tema non esaurito e molto importante per me, su cui ho molte cose ancora da dire: voglio dibattermi ancora con queste questioni che hanno a che vedere con la mia identità. Penso però che lo stesso Caderno non è solo un libro sul ritorno, è un libro sull’amore, sulla relazione tra una figlia e un padre e su ciò che di più profondo ci unisce e ci separa.

Luca: Ci racconti qual è stato il processo di scrittura de A gorda?

Isabela: Io scrivo in frammenti. È quello che ho fatto poco fa, mentre ero qui seduta ad aspettarvi. Quando andrò a casa trascriverò al computer Il frammento che ho scritto a mano e lo salverò insieme agli altri che vado scrivendo. Poi, a un dato momento, prenderò i vari frammenti, li rileggerò e organizzerò nella mia testa la struttura in cui i vari frammenti andranno a incasellarsi. Insomma conservo tutti questi frammenti e poi li cucio insieme.

Consuelo: A gorda può essere considerato un romanzo autobiografico?

Isabela: Si basa sulla mia esperienza in quanto donna grassa, in quanto donna che è nata in Africa, ma il personaggio di Maria Luísa non è totalmente autobiografico. Io non sono Maria Luísa, non è la mia autobiografia. Si basa sulla mia esperienza di vita, ma ci tengo a mettere in questione il fatto che si passi il tempo a chiedere agli scrittori se i personaggi sono o no autobiografici, perché non interessa saperlo. A me non passerebbe mai per la testa di chiedere a José Saramago se il personaggio di Blimunda è reale o no. Io ho una storia da raccontare e racconto la storia, senza che risulti essenziale se il personaggio è autobiografico o no.

Consuelo: Questa domanda mi è sorta perché quando iniziamo a leggere un libro e troviamo delle parti che sembrano parlare di noi stessi, ci sorge spontanea la domanda “sarà autobiografico?”. Perché è come se per un momento pensassimo di non essere soli, che qualcuno ha vissuto esattamente quello che noi stiamo vivendo o abbiamo vissuto. Per questo farsi questa domanda, ci fa pensare che non siamo gli unici, che non siamo soli.

Isabela: Quel che dici è vero. Ma sembra che sia uno stigma… Tu se fossi scrittrice… Sei scrittrice?

Consuelo: No, sono una lettrice.

Isabela: Se fossi scrittrice ti accorgeresti che c’è uno stigma sulla letteratura che ha dei lati autobiografici rispetto a un’altra letteratura che si distanzia dall’autobiografia. C’è una letteratura minore, che è quella autobiografica, e c’è la grande letteratura, che è la letteratura di finzione! Quindi voglio approfittare dell’opportunità della vostra intervista per mettere in questione quest’idea. Io conosco diversi scrittori che si nascondo dietro i loro personaggi, dicendo che non sono loro, ma poi in realtà lo sono. In realtà penso che è molto difficile avere un distanziamento assoluto da un personaggio. Io sento la necessità, quando mi imbatto in qualcosa che è proprio molto fuori di me, sento la necessità di conoscerlo molto bene, di conoscere quella persona, quella personalità, di appropriarmene come se fosse mia, per riuscire a sentirla, per riuscire a sentire in quell’atra maniera. Pertanto c’è un’appropriazione e quella cosa o quella persona diventano allo stesso modo mie, diventano autobiografiche.

Consuelo: E come lavori per appropriarti degli altri personaggi?

Isabela: Parlo con le persone, ascolto. Giornali, notizie, accadimenti, persone che passano per la strada. È un’appropriazione della realtà, io mi ispiro alla realtà, non mi immagino a scrivere letteratura di finzione scientifica! Se devo creare un personaggio con cui non ho niente a che vedere… Per esempio, immagina che devo creare il personaggio di un poliziotto: io non conosco nessun poliziotto, non so come funzionano, come pensano, non ne conosco. In quel caso ho la necessità di cercare qualcuno che ha a che vedere con la polizia. Nel mio caffè, dove mi conoscono, chiedo al proprietario: conosce qualcuno che ha queste caratteristiche, con il quale io possa parlare? Perché è come se io volessi rubare la vita di quella persona. A volte mi sembra di voler entrare là dentro, prendere quello che non vuole mostrare; sono un po’ ladra, ladra della vita delle persone.

Luca: La casa assume un ruolo molto importante in tutto il libro, tanto che ogni capitolo prende il nome di una stanza della casa dove vive Maria Luísa. Perché?

Isabela: Quando ero adolescente, vivevo da sola in Portogallo, non avevo una casa e il mio grande sogno era averne una, che fosse un po’ un rifugio, un riparo, un luogo di libertà, di intimità. E siccome questo libro è un libro su cose intime e cose private, sulla morte, sull’amore, sul sesso, su come una persona si distrugge, si distrugge e si costruisce, ho iniziato a pensare all’idea della casa. D’altra parte una volta che avevo scritto quasi tutto ho realizzato che al libro mancava una struttura. Finché ho visto un film che si chiama Room, di Lenny Abrahamson, basato sulla storia di una ragazza che era stata imprigionata da un pazzo che abusava sessualmente di lei. La ragazza aveva avuto un figlio dal suo rapitore e tutto ciò che il bambino conosceva era quello che poteva vedere dalla finestra che c’era sul soffitto. Vedeva le foglie degli alberi, il cielo azzurro ed era tutto quello che conosceva del mondo, oltre alla stanza. Quando si svegliava la mattina diceva: buongiorno tavolo! Buongiorno sedia! Buongiorno acqua! Dopo aver visto quel film mi sono detta: ecco una bella idea per strutturare il libro, vedere il mondo attraverso una casa, vedere il mondo attraverso la cucina, attraverso il bagno, attraverso il soggiorno. In ognuno di questi compartimenti ho inserito i frammenti e, quando ho incasellato tutto, ho dovuto legare i capitoli gli uni con gli altri, rendendo tutto coerente. Il libro va avanti e indietro nel tempo per questo, ritorna sugli stessi temi e gli stessi eventi in diversi capitoli.

Luca: C’è un legame tra la casa del Mozambico, che torna nei sogni dal padre di Maria Luísa e la casa di Almada, in Portogallo.

Isabela: Io penso che la casa è un personaggio di questo libro: nel finale del libro c’è un momento in cui si dice che la casa respira…

Consuelo: Sembra che abbia un’anima…  Maria Luísa a un certo punto decide di disfarsi della mobilia, inviata in una cassa dal Mozambico a Lisbona, che ha un’importanza simbolica molto grande per i suoi genitori. Così come le piante che la madre cura in maniera maniacale.

Isabela: Per la madre rappresentano l’Africa, sono molto importanti, ma non lo sono per la figlia. Questa è una cosa che non è autobiografica, perché per me l’Africa è molto importante. Maria Luísa invece la ha già oltrepassata e insiste sul fatto che la madre vi è troppo attaccata, è imprigionata da questo passato, da questa memoria. Lei è costantemente in lotta col padre e la madre: lottare contro la loro memoria fa parte di questo rifiuto dei genitori. Perché ha qualcosa contro il padre e contro la madre e sta in lotta permanente, implicita con loro. Solo in alcuni momenti questa lotta diventa esplicita: c’è un capitolo per esempio in cui i genitori vengono dall’Africa e lei non li sopporta, desidera che muoiano.

Consuelo: Mi sono soffermata e ho riletto varie volte la pagina che parla di quando il padre muore. Lei ha questo legame molto forte con il padre, racconta di quando lui non poteva alzarsi e lo portava a mangiare il gelato, ad esempio. Ma allo stesso tempo lei dice: “io non morirò come lui…”. Ho ripensato a questa frase perché per me è stata molto forte, perché il padre era malato, ma quando muore lei non piange, sembra che ci sia un distanziamento in quel momento.

Isabela, leggendo un passo del libro: “Quando abbandonai la stanza dove stava il suo corpo andai via con la certezza che dentro la sua carne lui già non c’era. Non piansi. Gli coprii il volto e uscii. La mia seconda vita terminava con la sua scomparsa, perché il papà è parte del mio corpo e si potrà estinguere solo quando il mio finirà”. Io penso che è per questo che lei non piange, perché il papà è parte del suo corpo e continuerà finché questo vivrà. E lei andrà a occupare il posto del padre nel letto con sua madre.

Consuelo: Questo punto mi ha toccato molto.

Isabela: Io ho scritto questo perché lo sento, in relazione alla morte delle persone che ho amato molto. In relazione a mio padre e mia madre ho sentito che è arrivato un momento in cui la morte era una benedizione, perché stavano soffrendo troppo, già non era una vita buona, una vita degna. Io sento che c’è un momento in cui vogliamo che una persona rimanga viva perché la amiamo, però sentiamo anche che è meglio che quella persona vada perché amiamo anche noi stessi e già non riusciamo a sopportare più. Ho sentito che optavo per quella seconda via perché non valeva più la pena quella vita. Io mi dovevo risparmiare… Ora sto parlando di me come persona, di me come figlia.

Luca: È un libro che coinvolge molto.

Isabela: Sì, ricevo molte lettere di persone che dicono che si sono identificate e questo è molto bello.

Luca: È successo anche a noi leggendo il libro, anche perché siamo anche noi migranti in qualche modo, essendoci trasferiti dall’Italia al Portogallo. Certo non è la stessa cosa rispetto a quella che racconti tu, che ha a che vedere qualcosa che si è lasciato e non si potrà mai più riavere, come nel caso dei “retornados” dall’Africa… Ma ho un’altra domanda: la protagonista ha un modo di affrontare le cose molto coraggioso, dice a sé stessa la verità senza infingimenti…

Isabela: Questo è profondamente autobiografico nella personalità di Maria Luísa, io sono così. È ispirato alla mia personalità. Io sono una persona fragile, come la maggior parte delle persone, ma ho coscienza della mia fragilità, e cerco questa forza. Sono riuscita a fare di Maria Luisa una creatura emotivamente tanto fragile e tanto dolce, molto sensibile, lei è un cuore, ha molta forza, lei porta tutto avanti. Io molte volte nel silenzio mi fermo e dico: no no, non sarà così ma sarà in un altro modo. Io mi impongo obiettivi e mete, mi disciplino, mi obbligo ad avere una vita più gradevole e più positiva, di non andare giù. Io sono una persona molto sola: non ho sostegni, non ho il sostegno normale di una famiglia, perché non ho né genitori né fratelli né un marito, e non sono ricca, quindi non ho l’appoggio finanziario del denaro, pertanto devo trovare appoggio in me stessa e questa è una qualità che ho, questa capacità di auto appoggiarmi. Ho voluto passare questo a Maria Luísa…

Consuelo: Questo appoggio lo si può trovare anche nella creazione e nel dominio dei personaggi?

Isabela: Sì,perché la costruzione di personaggi è la costruzione di un’utopia. Io domino questa costruzione di un mondo, hai ragione, io mi appoggio molto su questo. Costruisco la vita dei personaggi su quello che credo… Oppure li distruggo completamente quando credo che non valgano niente.

Consuelo: Non valgono niente perché?

Isabela: Per me non valgono niente quando non hanno coraggio. David qui è un personaggio molto maltrattato, Maria Luísa non dice lo dice direttamente, ma dalla lettura capiamo che lui è un uomo senza coraggio. È una caratterizzazione indiretta, lei lo distrugge senza dire una unica parola contro di lui. È attraverso i suoi comportamenti che lo distrugge e io da scrittrice, attraverso i gesti e le attitudini che gli attribuisco, lo distruggo. Questo libro non sarebbe lo stesso senza David, è un personaggi molto ben trattato, ben tratteggiato  a livello di scrittura, ma molto maltrattato come personaggio: molto ben maltrattato!

La scrittura poi è una terapia, come la lettura in generale. La letteratura e l’arte sono le cose che mi hanno aiutato di più sin da quando ho iniziato a leggere, sin da quando mi sono affacciata nel mondo. E anche il cinema perché ci porta in un altro mondo che non è il nostro, e quindi fuggiamo, scappiamo da questo che a volte è molto duro. Una cosa che Maria Luísa fa per scappare da questo mondo è fantasticare, lei fantastica molto, con Mark Ruffalo, con Jude Law, ecc.

Consuelo: Tony, la sua amica, è un altro personaggio molto ben maltrattato!

Isabela: Molto! Mi sono divertita molto a scrivere di Tony. Da ragazza ho conosciuto una donna che era così, mitomane. Era una donna che venuta dall’Angola ed era più grande di me, che delirava dicendo cose del genere che conosceva la regina d’Inghilterra, che il principe Carlo era innamorato di lei. Io ci credevo. Poi mi sono accorta che diceva qualcosa che contraddiceva quello che aveva detto la volta precedente, e solo così capivo che non poteva essere la verità.

Consuelo: Pensavo fosse completamente inventato il personaggio di Tony.

Isabela: No, è come ti dicevo prima, si basa su una persona che ho realmente conosciuto. E mi piace così tanto che penso che la farò rinascere, penso che merita vita in altri libri. Molte persone mi dicono che gli è piaciuta molto quella parte in cui Maria Luísa spalma la crema sul corpo di Tony! È un libro che alle donne piace molto, ma anche agli uomini. Ad alcuni uomini, specie quelli mediterranei, a cui piace il calcio, non piacciono alcune parti. Però sono sorpresa del fatto che molti uomini si sono identificati nel libro. Penso che la cultura in cui viviamo obbliga gli uomini ad essere forti artificialmente. Non sono forti in partenza, lo sono perché obbligati ad esserlo, e in questo aspetto Maria Luísa è come un uomo, lei si obbliga ad essere forte, è un lavoro su stessa che ha dovuto fare.

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