di Giuseppe Avigliano
Un cocktail ed un titolo importante. L’epica nel titolo, la quotidianità nella copertina. Che sia un gioco dadaistico o l’ultima cabina del minimalismo di contenuti, quel campari e gin (si presuppone che perlomeno non si sia sbattuto in primo piano un plebeo Spritz servito in un bicchiere basso) è l’emblema di una narrativa da salotto – anche se fra le nuvole, in aereo – e tutto quel ghiaccio che annaffia il drink ne suggella, a modo suo, la scipitezza. Se il titolo suggerisce un romanzo rivelazione, quello definitivo su una certa idea di letteratura italiana contemporanea, l’immagine porta al ribasso l’asticella, ci spinge a quella Grande Bellezza nata già stanca e sopravvivente, tutt’oggi, per una inerzia strisciante.
Alessandro Piperno ci aveva incantato, col suo primo romanzo, capolavoro indiscusso e non più superato, Con le peggiori intenzioni. Se c’è stato un Philip Roth italiano, è vissuto nell’ampio di quel libro. Poi con la saga dei Pontecorvo (Il fuoco amico dei ricordi – Perscecuzione, Inseparabili) s’è fatto strada, con merito, verso il Premio Strega. Con questo libro, ci si aspettava – e non a torto, viste le ambizioni del titolo, – il romanzo dell’anno. Non lo è stato. Qui piuttosto Piperno continua a indagare, come solo lui sa fare, nei meccanismi familiari dell’alta borghesia romana, in quel mondo ovattato e delirante, colmo di schegge impazzite fra la riproduzione seriale di dandy nichilisti e animali da alta società. I sentimenti, aggrappati a un nevrotico grumo d’orgoglio ed egotismo in ciascun personaggio, dominano le pagine. Sono i veri protagonisti. Non ci sono più personaggi, si direbbe, ma solo una caotica combinazione di scontri elettivi e fughe.
Matteo Zevi incarna le sembianze del pater familias pre-cristiano, divino al modo di Zeus, di cui condivide la stessa facilità copulativa. Le sue quattro mogli segnano la rottura definitiva delle delimitazione familiari, l’incastrarsi di rapporti e affinità che s’aggomitolano intorno alla figura solipsista di Matteo, per non riuscire a sbrogliarsi mai più. Il deus ex machina fatale, sterminatore, piomba sul romanzo nascondendo tutti i suoi fili fino all’ultimo momento, e soccombe egli stesso all’astuzia del protagonista che, galeotto e spregiudicato anche nella disperazione, riesce a salvarsi la pelle e a rifarsi – per l’ennesima volta – un nome.
Giorgio Zevi, figlio di Matteo, vive delle stesse pulsioni di Michele Ardengo nei salotti de Gli indifferenti. La sua ribellione senza proiettili è un fumo che si innalza a sacrificio dei più forti: degli dei, di suo padre. Non si uccide il proprio Budda, in queste pagine; e non c’è rivoluzione, ma solo l’estenuante esercizio di autoaffermazione che mescola battaglie generazionali e risentimenti personali.
Federica Zevi, moglie in carica, è la soccombente. Regge i fili, tesse senza mai disfare la tela. Anzi, riempie le mancanze del marito, le tollera e quasi le giustifica. È la donna biblica, governante del focolare domestico; non partecipa della felicità del proprio status ma contribuisce a quella dei suoi familiari senza chiedere niente in cambio. Martina, figlia di Matteo e Federica, eredita da lei quell’abnegazione per il sacrificio ed investe tutta la sua energia sull’amore sbagliato per eccellenza, sadico e inesprimibile.
C’è il temporale, nel cocktail della copertina. La bufera in un bicchiere. È un microcosmo tutto italiano e mai slegato dalla dimensione universale. C’è la famiglia in tutte le sue declinazioni e la sua resistenza a un sistema che separa, moltiplica e, nel suo moto frenetico, annienta. Le tragicità individuali di ciascun personaggio si tarano sul deserto culturale dei salotti romani e lo spazio di demarcazione fra i primi e il secondo – il rumore bianco che sottende al romanzo – è una contemporaneità astorica, narcisistica e fine solamente a sé stessa. La Storia è, nella sua rivelazione, una violenta deflagrazione: ma è sempre e comunque una fine, che non porta con sé – come vorrebbe Francis Fukuyama – la realizzazione di un sistema economico e sociale. Porta il compimento del caos: nient’altro.
Dove la storia finisce indugia sulla superficie delle cose e ne restituisce la complessità. Alle archeologie familiari preferisce le cronache attuali. All’approfondimento sociologico sostituisce l’immediatezza degli eventi. Come direbbe Palomar – che dal suo pulpito letterario meglio di chiunque può chiudere il cerchio su questo libro – «solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile».
Da Docente di filosofia aggiungerei il richiamo a Kant oltre che a Palomar, in particolare nella Critica della Ragion pura e più precisamente nella distinzione che fa tra fenomeno (ovvero la cosa così come ci appare) e noumeno (ovvero la cosa in sè, solo pensabile ma mai conoscibile). Fino a che punto però l’uomo si accontenta della già citata “superfice delle cose”? E soprattutto fino a che punto fenomeno e noumeno,superficie e profondità, sono separate?
A questo proposito Kant parla della “leggera colomba che mentre nel suo libero volo fende l’aria, di cui incontra la resistenza, potrebbe immaginare di poter più agevolmente volare in uno spazio privo d’aria” , eppure noi sappiamo che senza quella resistenza essa non si potrebbe sollevare in volo di un solo centimetro.
Come a dire che la profondità delle cose non avrebbe senso senza la superficie.