di Giuseppe Avigliano
C’è il corpo di una donna insanguinata che cammina al centro di una carreggiata della tangenziale, in piena notte. E c’è la fetta di luce tagliata dai fari di un camion, che per qualche istante illumina quella donna.
La ferocia è un romanzo che si costruisce per immagini, anche. E questa è la prima che si impone al lettore. Sta lì: richiede il suo spazio di riflessione e una dose di fiducia incondizionata nel narratore. Non siamo in un film di Quentin Tarantino. Né in uno scenario pre-apocalittico. Ci troviamo sulla tangenziale di Bari. Ai giorni nostri. Quella donna è Clara Salvemini.
Raccontare il microcosmo familiare dei Salvemini, ambientare una storia nella provincia meridionale italiana, scrivere di festini erotici, corruzione, disastri ecologici, corridoi preferenziali fra squali imprenditoriali e sottoboschi di governo, gole profonde della magistratura, Asl, cocaina…
Ci vuole coraggio, e ne ha avuto tanto Nicola Lagioia. Correre dietro a questa storia, mettere insieme le tessere di un domino che può cedere in ogni momento al demone della credibilità (e della non credibilità) è un’impresa letteraria non indifferente.
Inseguire le pagine di questa storia, dalla parte del lettore, è altrettanto difficile. I piani narrativi si susseguono come pagine di un giornale che non lascia spazio alle notizie di evasione: alterna titoli di cronaca a caratteri cubitali, dorsi sulla corruzione, tagli medi e bassi sulle derive sociali e le catastrofi ambientali.
L’ostaggio della ferocia. Il corpo di Clara.
Clara è il primo personaggio che compare fra le pagine del libro. Sta andando incontro alla sua morte. Questa sua comparsa sul palco del romanzo è la sua unica e terribile denuncia. Non chiede alcuna redenzione, né se ne intesta alcuna. Sta andando a morire su una tangenziale, di notte. I suoi passi la guidano sotto il solo filo di luce che regge ancora il gioco della verità. Tutto il resto è zona d’ombra.
L’ombra, ovvero la vita in tutte le sue sfaccettature.
È nell’ombra che si conduce il gioco intero della vita. Michele Salvemini non sarebbe l’imprenditore milionario che è se non avesse adempiuto a tutte le imposizioni del decalogo della malvivenza: mazzette, telefonate di cortesia, amicizie mirate, compromessi con le mafie. Il suo patrimonio, i cantieri aperti in mezza Europa, le ville, sono gli smerli delle torri di un castello costruito col fango e col sangue.
Michele e la vendetta degli indifferenti.
Michele è il figlio di Vittorio. Non di sua moglie. L’amante, una donna che poteva avere la metà dei suoi anni, muore a causa del parto. Quando Vittorio torna a casa con quel bambino sconosciuto, Annamaria, la moglie, lo accetta col sorriso malcelato per la morte della rivale.
Non so se sia una coincidenza, quel nome. Credo di no. Perché non posso non pensare a Michele Ardengo, a Gli indifferenti. Michele Salvemini è l’epigono inevitabile di Michele Ardengo. Messo da parte per tutta la vita, in quella famiglia – i Salvemini – che sempre lo aveva ritenuto non degno delle stesse attenzioni dei fratelli, relegato nei vuoti legislativi delle cliniche psichiatriche, allontanato con forza dalla sorellastra Clara. Michele torna proprio in occasione della morte di quest’ultima e con la sua parte di ferocia aspira a una vendetta non solo familiare, bensì intergenerazionale, trans-letteraria, definitiva.
Ruggero, Gioia, Annamaria
Gli altri componenti della famiglia Salvemini non sono altro che il riempimento degli spazi vuoti lasciati dalla figura ingombrante del padre. Ruggero è uno dei più promettenti dottori d’Italia. Ma non vincerà mai un premio Nobel, seppure ne abbia tutte le capacità. Il talento feroce di un Salvemini, relega nell’ordinarietà tutto ciò che di buono è intorno a lui.
Gioia e Annamaria, figlia e moglie, sono solo il completamento di una casa che sembri umana – dia calore – in occasione delle cene importanti, quando l’ambiente familiare deve far leva sulla scelta determinante di un giudice o di qualche altre pezzo importante.
Solipsismo di Vittorio Salvemini
Vittorio è la figura che predomina il romanzo. Ne tesse le trame, crea intrecci, disfà la tela, se necessario. La ferocia è la strada maestra verso il successo, e Vittorio l’ha percorsa tutta. Non ha però messo in conto una cosa: ferocia genera ferocia. Il cinismo di Ruggero, la vendetta di Michele, il sorriso mortifero di Annamaria, le dissimulazioni di Gioia. Vittorio è l’eroe solipsista dell’età moderna. Ne incarna tutti i lividi e le sopraffazioni.
La ferocia è un romanzo che non richiede un giudizio sbrigativo. Bisogna lasciare il corpo di Clara appeso al filo di luce che la illumina prima dell’uscita di scena. Lì, sulla tangenziale: dove siamo abituati a tagliare la città, per eludere il trambusto del traffico.
Il romanzo di Lagioia è appena un sussulto. Punta l’occhio sulla provincia, per parlare di una nazione. Si aggira nell’ombra, per mettere in luce. Si legge in pochi giorni; non lo si smaltisce facilmente.