di Alfonso Natale
Recandomi per un mio recente viaggio nella matka měst, «madre delle città», come orgogliosamente la chiamano i suoi abitanti, sono stato colpito da un luogo che per gli amanti della letteratura è indubbiamente rivestito di un intenso significato.
Dopo aver attraversato la Moldava su uno dei numerosi ponti che unisce i due splendidi quartieri del centro storico, Stare Mesto e Malá Strana, con la mia comitiva e al seguito di Luca, la nostra guida italiana, sono giunto in una piazzetta silenziosa e appartata, dove gli uomini di bronzo della dissacrante fontana di David Černý pisciano eternamente su una vasca con la forma della nazione. Lì si affaccia un edificio dove è allestito il museo.
Dopo l’ingresso e la necessaria sosta in biglietteria, presso la boutique del museo, mi sono immerso nella penombra delle sale, buie tranne che nei punti dove sono esposti i libri, le stampe, le altre testimonianze della vita di Franz. E la penombra perenne delle sale si contrapponeva quel giorno con il cielo terso di un pomeriggio sereno. Contrasto interno-esterno, buio-luce, artificiale-naturale: opposizione tra il reale avvicendarsi del dì e della notte, e la studiata cupezza degli ambienti.
Certamente la sala museale buia può essere intesa non come cupezza, ma come una soluzione ‘scenografica’ ingegnosa, in uso in altri musei contemporanei: permette di focalizzarsi sull’oggetto di studio, di annullare i condizionamenti dell’esterno, di creare un’atmosfera adatta ad attingere al sapere, veicolato dai pannelli espositivi e dalle teche. Ma in base allo stato d’animo l’atmosfera che si crea può anche essere percepita come opprimente, e riprodurre spazialmente l’angosciosa tristezza di alcune vicende e situazioni proverbialmente chiamate kafkiane.
Questo è vero, e intenzionalmente ricercato da parte dei curatori del museo, nel corridoio che accoglie il visitatore dopo le prime sale. Alle pareti, su entrambi i lati, sono appoggiati i cassetti di un immenso archivio. Sono in un nero laccato, che riflette fiocamente la fredda illuminazione. Ciascun cassetto reca un’etichetta con le lettere alfabetiche o con i cognomi, e in due punti alle pareti è appeso un telefono, nero anch’esso: se sollevi il ricevitore puoi ascoltare delle fredde istruzioni in tedesco. Una musica sinistra, martellante, intessuta di rumori, si diffonde nel corridoio, e alcuni video rappresentano degli oggetti vincolati ad un ossessivo movimento, che si sussegue all’infinito: una macchina da scrivere opera in automatico; nessuno la manovra, forse perché nel freddo universo degli uffici non conta chi esegue il lavoro, ma solo che venga eseguito. Un altro video rappresenta invece delle mani che, avulse dal corpo, girano su sé stesse muovendosi nel vuoto; e neanche in questo caso è dato sapere il volto di chi presta l’opera.
L’incubo spersonalizzante della burocrazia termina subito dopo, ma rimane l’atmosfera cupa, che accompagna il visitatore del museo fino all’uscita, nel guardaroba. I cassetti del tunnel sono finti, ma due o tre sono aperti e accolgono copie delle opere di Franz Kafka, tra cui i romanzi ispirati alla burocrazia: Il processo, Il castello.
Reduce da un’esperienza suggestiva, che coinvolge la vista e l’udito, e soprattutto la mente, mi reco con il gruppo al vicino Muro di Lennon. Non è nulla più che un muro, su cui però oggi, come negli anni Ottanta, scritte e disegni ispirati alle canzoni dei Beatles e alla pace nel mondo appaiono continuamente, per poi sparire dopo qualche settimana o qualche mese, invasi e sostituiti da nuove scritte e nuovi disegni. Oggi i graffitari vengono da tutto il mondo e operano liberamente, ma qualche decennio fa il muro era di volta in volta ripulito dalle autorità, e ‘imbrattato’ dai giovani che esprimevano le loro idee sul muro in segno di sfida.
Ammiro con interesse questo pezzo di storia cittadina e nazionale, che testimonia e perpetua gli aneliti di una generazione che aspirava a uno stile di vita più libero e spontaneo, sia pure nella condivisione del benessere sociale, e non posso fare a meno di notare un’analogia: quella tra l’omologante e pervasiva invadenza di un regime totalitario e l’intransigenza burocratica rappresentata nelle opere di Kafka, e riprodotta dai curatori del suo museo in quel Corridoio dell’assurdo.
* Si ringrazia Angela Forgione per il video e la foto del Museo.
C’è da considerare a mio parere il fatto che in Kafka l’ebraicità (filo conduttore di tutti i suoi scritti) viene avvertita come una sorta d’incognita il cui peso ricade sull’esistenza individuale quale segno di elezione e che si traduce come ricerca di un’espressione di senso enigmatica. Ecco allora che si spiega come Kafka nel manifestare un mondo sempre interiore lo arricchisce continuamente dei cosiddetti “fantasmi del subconscio”, fantasmi della mente dei “tanti nessuno” che abitano e agiscono in un mondo che sprofonda sempre più nell’insensatezza e, per dirla con l’aggettivo riportato nel titolo del’articolo, nell’assurdo.