di Giuseppe Avigliano
Se ti chiami Maurizio Maggiani e esci con un libro dal titolo ambiziosissimo Il Romanzo della Nazione è inevitabile: stai creando nel mondo letterario un piccolo big bang di aspettative.
Già, perché sono anni ormai che in Italia si aspetta il romanzo che faccia epoca. Che chiuda un periodo per aprirne uno nuovo. Che cambi il panorama intorno a sé stesso. Maurizio Maggiani e il suo ultimo libro erano candidati a questo tremendo compito: anche non volendolo, solo il suono importante dei due sostantivi del titolo e le poche informazioni che trapelavano sulla trama già lasciavano indovinare una nuova idea di narrativa.
E invece diciamolo subito: l’appuntamento è mancato.
Il Romanzo della Nazione è l’ennesimo libro di un filone intimista che è ormai stato declinato in tutte le salse dall’editoria italiana. Edoardo Nesi e Francesco Piccolo sono due autori fra i più fortunati di questo genere; la narrazione è tutta ripiegata sulla figura dello scrittore che si muove tra le pagine del romanzo insieme agli altri protagonisti e infarcisce il racconto di digressioni ombelicali, vorticosamente introspettive.
Ma veniamo al romanzo in questione. Tutto inizia con la morte del padre. E di qui circa 150 pagine per raccontare la sua vita. C’è Kafka, qualche reminiscenza freudiana e il tentativo di una ricostruzione storica, ma la scrittura non arriva mai a farsi racconto. Tutto resta sul livello di un resoconto personale: le finestre del romanzo restano ostinatamente chiuse, la Nazione è fuori, da qualche altra parte.
Poi, superata l’elaborazione del lutto a cui è costretto anche il lettore segue un capitolo fiume di storie di uomini che hanno fatto l’Italia, vivendo la stagione risorgimentale e lavorando nei cantieri su e giù per la penisola. Sono storie restituite alla Storia, frutto di una minuziosa ricerca dell’autore: ben figurerebbero in un pamphlet dalle non larghe pretese. Non si capisce, invece, cosa stiano a fare fra le pagine di questo libro, incastonate fra ricordi di famiglia e autocelebrazioni dell’autore. Sembra quasi che stiano lì a giustificare il titolo del romanzo: come se un capitolo possa risolvere, da solo, le ambizioni del disegno iniziale.
Maggiani parla anche di due pezzi che sarebbero potuti essere l’incipit di questo romanzo, quando ancora era solo un progetto e l’autore cominciava a prendere appunti… Nel primo c’è Cavour intento a grattarsi un porro sul naso con la guarnizione di pelle di un cannocchiale, su un belvedere che dà sul Golfo della Spezia.
Nell’altro incipit scartato, invece, ci sono un uomo e una donna di origini italiane in una sala di un ospedale palestinese.
È chiaro che questo libro doveva essere un altro libro nelle stesse intenzioni dell’autore. I buoni propositi c’erano tutti. Quello che resta, invece, è solo la brutta copia di un romanzo che è claustrofobicamente concentrato sulle memorie familiari e che non riesce ad allargare il respiro alla storia di una nazione, mai, nemmeno nelle pagine migliori.
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